Italia e guerra in Yemen, nodo politico
Interrompere l’invio di armi prodotte in Italia verso i Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen rappresenta un’istanza legata alle scelte di riconversione economica che l’Italia può compiere con le risorse del Next generation Ue. Video integrale de Il Lunedì di Città Nuova del 25 gennaio 2021
Italia e guerra in Yemen al tempo della crisi di governo. Il Conte 2 era in procinto di rinnovare la sospensione dell’invio di armi verso l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti. In tal senso si è espressa la mozione votata a maggioranza dalla Camera nel dicembre 2020 per dare continuità alla decisione assunta dall’esecutivo Conte 1, alleanza Lega M5S, nel luglio 2019, allargando il divieto di esportazione a tutte i sistemi d’arma (non solo missili e bombe) e tutti i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen.
Parliamo di un conflitto, in corso dal 2015, definito il più grave disastro umanitario dall’Onu che ne ha denunciato i veri e propri crimini di guerra perpetrati contro la popolazione civile. Come più volte riportato da Città Nuova, esiste una rete di associazioni a livello nazionale che sostiene il blocco dell’invio di armi ai Paesi in guerra e a quelli che violano i diritti umani.
Si tratta, in sostanza, di osservare, senza scappatoie, la legge 185 del 1990 che ha dato seguito al principio costituzionale contenuto negli articoli 11 e 41 della Carta, prevedendo anche un fondo per la riconversione economica conseguente alla dismissione delle commesse belliche. Come è facile intuire, è difficile interrompere la produzione e vendita di armi senza un’alternativa economica per non esporre la società ad uno dei tanti ricatti occupazionali che colpiscono i lavoratori: dal conflitto tra salario e salute a quello tra lavoro e coscienza.
Il Comitato riconversione Rwm nato in Sardegna nel 2017 per sostenere l’alternativa, nel Sulcis Iglesiente, alla produzione di bombe da parte di una fabbrica (Rwm) controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall Defence, ha visto, in poco tempo, l’adesione di numerose realtà a livello italiano e internazionale, fino alla costituzione di un’alleanza con la società civile tedesca per promuovere, nel territorio, una produzione “libera dalla guerra” (war free).
Nella filiera della produzione e commesse di armi un ruolo decisivo è rappresentato dai trasporti aerei e marittimi. E proprio dai porti è giunta la notizia di una rete di lavoratoti della logistica che in diversi scali europei si sono rifiutati di prestare assistenza alle navi saudite che dal Nord America raggiungono il Golfo persico facendo sosta in diversi porti strategici. Come quello di Genova dove i portuali del collettivo Calp si sono rifiutati di collaborare alle operazioni di carico e scarico della merce (sistemi di arma o a loro funzionali) di una nave di una compagnia saudita.
Un gesto sostenuto da diverse associazioni locali, come quelle che hanno dato vita al gruppo “Genova città aperta alla pace”, e preso come esempio da papa Francesco ma che solleva le critiche di chi intravede in questa presa di posizione un ostacolo all’attrazione di investitori internazionali a vantaggio di altri nodi di scambio. Un’obiezione che può essere superata solo da una rete di solidarietà tra i lavoratori di tutti i porti europei e del Mediterraneo. Rete che Weapon Watch cerca di sostenere con un osservatorio permanente del traffico di armi sulle vie marittime che attraversano l’Europa e il Mediterraneo.
Al centro di tale azione esiste la consapevolezza che «i porti sono al cuore del sistema militare-industriale mondiale. Se è vero che tutte le merci collaborano allo sforzo della “terza guerra a pezzi” – dal petrolio al coltan, dalle automobili all’elettronica, dalle scorie radioattive ai generatori –, le armi rappresentano immediatamente il campionario di morte offerto sul mercato globale».
Proprio il 25 gennaio 2021, giorno di mobilitazione mondiale contro la guerra in Yemen, i lavoratori del Calp di Genova hanno promosso un presidio fisico presso il molo “Eritrea” destinato alla linea saudita per rinnovare il proprio impegno che tiene conto delle ragioni di non collaborare al sistema della guerra ma anche della sicurezza per la città. Il sito è, infatti, vicino al centro abitato e in molti hanno presente la terribile esplosione che ha sconvolto il porto di Beirut nell’agosto del 2020.
L’appuntamento promosso il 25 gennaio 2021 sul web da Città Nuova ha cercato perciò di offrire un quadro d’assieme di quanto avviene in alcuni territori del Paese (dalla Sardegna a Genova) con l’azione di informazione e pressione esercitata verso l’opinione pubblica, Parlamento e governo.
Si tratta una questione che chiama in causa la responsabilità del nostro Paese che si trova alle prese di una crisi di governo dagli esiti incerti, emersa in piena pandemia e incentrata, al di là delle distrazioni mediatiche, sui criteri di gestione delle risorse del Recovery plan
C’è da riconoscere che lo scontro tra le forze politiche non ha avuto al suo centro, ad esempio, la questione della vendita di 2 navi da guerra al governo egiziano, con cui è aperto il contenzioso sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni torturato e ucciso in circostanze che il regime di Al Sisi non vuole approfondire.
La commessa rientra nella strategia consolidata di orientare la produzione delle grandi società italiane sotto controllo pubblico ( Finmeccanica Leonardo e Fincantieri) verso il settore bellico. Il volume di affari previsto è ad esempio di 5,5 miliardi di euro per la vendita agli Usa di nuove fregate lanciamissili. Ma come ci informa un comunicato stampa di Fincantieri del primo maggio 2020 (giorno dei lavoratori) la loro controllata statunitense Marinette Marine (FMM) «ha ottenuto un ordine plurimiliardario per la costruzione di 4 unità Multi-Mission Surface Combatants (MMSC), destinate al regno dell’Arabia Saudita, nell’ambito del programma Foreign Military Sales degli Stati Uniti».
Relativamente a Finmeccanica, ora Leonardo, il distretto genovese rappresenta l’esempio della progressiva dismissione di settori civili di avanguardia a favore di quello militare, come testimoniano le analisi di Gianni Alioti da parte sindacale e Stefano Zara da parte di Assindustria. C’è bisogno di attingere a tale prospettiva per narrare una storia omessa del nostro Paese e cioè che la concentrazione sulla produzione bellica connessa a filiere esterne, fuori da ogni coordinamento europeo ma con i Paesi in competizione tra loro, è una delle cause del declino economico e industriale dell’Italia che si è riversato sui lavoratori come anello debole di un sistema che non riconosce loro alcun potere decisionale su cosa cosa, come e per chi produrre.
Il flusso di armi è come un gigantesco nastro trasportatore che non si può bloccare impunemente. Sono le istituzioni spesso e le forze politiche di diversa estrazione a dire che le scelte di coscienza non possono comportare la mancata attrazione degli investitori stranieri. Lo dicono in parlamento quelli che giustificano il male necessario con il fatto che le guerre vanno avanti lo stesso e che pertanto “altri venderanno le armi al posto nostro”. Ragionamenti più complessi sono alla base, in Francia, della esplicita dichiarazione di Macron di non voler condizionare le relazioni internazionali, incentrati sulle forniture di armi, a criteri etici.
Con riferimento allo Yemen, la gran parte della popolazione non sa neanche dove si trova, la sua storia millenaria, le ragioni della guerra e l’importanza strategica di una nazione che appare la più povera dell’area. Ma non serve avere grandi conoscenze geopolitiche per non restare indifferenti davanti alle notizie sui bombardamenti di scuole e ospedali, l’epidemia di colera che la guerra ha innescato e decidere di non voler collaborare a tale stato di cose.
Eppure questa consapevolezza rischia di restare senza prospettive se non si avvia una riconversione economica integrale dei territori, da sostenere con le risorse del Next Generation Ue. Il contrasto ad ogni partecipazione dell’Italia al conflitto in corso in Yemen permette di mettere in evidenza un nodo centrale della nostra politica.
All’incontro del 25 gennaio hanno partecipato Cinzia Guaita del Comitato riconversione Rwm, Carlo Tombola di Weapon Watch e Paolo Pezzati di Oxfam Italia, organizzazione impegnata per ridurre le diseguaglianze e che promuove un’azione congiunta sull’emergenza guerra in Yemen assieme a Amnesty International Italia, Comitato Riconversione RWM per la pace ed il lavoro sostenibile, Movimento dei Focolari, Save the Children, Rete Italiana Pace e Disarmo e Banca etica.