Natale 2020

Braccianti agricoli, quei ghetti da smantellare

È arrivato il freddo ma, nonostante le intenzioni del tavolo nazionale contro il caporalato, resta lo scandalo dei ghetti disumani destinati ai lavoratori agricoli. I casi di San Severo in Puglia e di San Ferdinando in Calabria. Intervento di Jean Renè Bilongo dell’Osservatorio Placido Rizzotto

Diritti umani, ghetti e dignità del lavoro. Il piano triennale varato in sede ministeriale, prima della pandemia, dal tavolo nazionale di contrasto al caporalato aveva programmato il superamento dei “ghetti”, enormi aree di sistemazione insicura e malsana riservati ai braccianti agricoli come quello di 800 persone presente nelle campagne di San Severo nelle Puglie dove il vescovo Giovanni Checchinato si recherà il 27 dicembre per celebrare una messa in continuità con lo “spezzare il pane” quotidiano della Caritas diocesana presente concretamente tra i lavoratori agricoli immigrati. Come riporta Toni Mira su Avvenire, «da mesi solo la Caritas è presente nel “gran ghetto”.

Non li abbiamo abbandonati. Tutte le settimane i nostri volontari sono lì” spiega il direttore don Andrea Pupilla». Anche la Asl si rivolge alla realtà caritativa ecclesiale per la distribuzione di mascherine e Kit igienici. Anche se, come rivela a Mira, Serena Di Michele, mediatrice culturale Caritas, molti residenti del “gran ghetto” «hanno paura ad andare in ospedale per farsi curare per altre malattie o traumi, frequenti tra chi vive in baracca e lavora nei campi. Temono che col tampone poi li ricoverino e quindi di perdere il lavoro. Così si tengono le ferite o le mani e i piedi piagati».

È partito, invece, nei giorni scorsi, dalla tendopoli di San Ferdinando in Calabria un corteo di braccianti agricoli per protestare contro la morte di un lavoratore di 33 anni proveniente dal Mali, Gora Gassama, investito e lasciato senza soccorso il 18 dicembre nella piana di Gioia Tauro mentre tornava in bicicletta dai campi. Manifestazioni spontanee condivise da altri insediamenti nella piana agricola del reggino.

In una lettera aperta dei compagni di lavoro di Gassama sono espresse le ragioni di un movimento spontaneo che ha prodotto finora degli scioperi spontanei: «Un altro fratello ucciso, un’altra morte che si poteva evitare. Per questo, per tutta la giornata di oggi noi lavoratori della terra saremo in sciopero. Non troverete nessuno di noi nei campi, nei magazzini e nelle serre. Siamo stanchi di essere sfruttati e ammazzati dagli stessi che di giorno ci obbligano a lavorare senza contratti né garanzie nei campi, a vivere come animali e la sera ci tirano giù come birilli, perché la vita di un africano non conta. Non siamo braccia, siamo uomini».

Con il freddo inizia il periodo più difficile per chi sta nei campi all’aperto e non ha un luogo degno per alloggiare. La situazione, come dicono le autorità locali rischia di essere senza controllo ed esplosiva senza un intervento adeguato che non sia affidato solo alla forza pubblica. Ma il vero nodo da sciogliere resta quello di agire sulle cause strutturale che producono condizioni disumane di sfruttamento del lavoro non solo nel tradizionale settore agricolo.

L’incidente mortale avvenuto nella Piana di Gioia Tauro discende direttamente, come afferma Celeste Logiacco, dalle «condizioni drammatiche e degradanti di lavoro, marginalità sociale, trasporto pubblico inesistente e mobilità dei lavoratori in mano ai caporali che mettono a repentaglio la vita e la sicurezza dei lavoratori».

Sulla situazione in generale della lotta al caporalato e la necessità di intervenire per eliminare lo scandalo dei ghetti riservati ai braccianti migranti abbiamo sentito Jean Renè Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil e coautore del libro edito da Città Nuova “Spezzare le catene. Un lavoro libero tra centri commerciali e caporalato”.

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