Ernesto Che Guevara oltre l’icona
«In quel giorno di ottobre in terra boliviana era tradito e perso Ernesto “Che” Guevara». Per molti italiani l’epica di Francesco Guccini ha espresso l’eterno ritorno del combattente donchisciottesco, perdente ma vittorioso per la giustezza della causa.
La vicenda umana di questo medico argentino nato nel 1928, da una famiglia benestante di origini basche e irlandesi, e morto prima di compiere 40 anni, nel 1967, mentre tentava di esportare la rivoluzione in tutto il mondo, ha segnato l’immaginario di un secolo. Il suo ritratto più sconosciuto e poetico è quello che narra la maturazione nel viaggio da giovane, con il suo amico Alberto Granado, a cavallo della motocicletta nelle ferite aperte dell’America Latina. I prodomi di una scelta che lo condusse all’adesione della via delle armi per ribaltare «il potere imperialista». Una opzione tragica che ha segnato una generazione intera oltre la vita del “Che”, ricordato per la citazione sulla necessità di essere «duri senza perdere la tenerezza», ma che, nella sua azione, non è stato indenne dall’approvazione di esecuzioni sommarie, come ricordava anche Osvaldo Soriano.
La storia, infatti, è complessa e controversa, intrisa di violenza, da analizzare oltre il mito strumentalizzato da ogni potere, ma che individua ancora oggi un senso di “attesa” dai toni messianici, come rivelano i versi finali del canto di Guccini: «Da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non l’aspettate, il Che ritornerà».
Molto più realisticamente bisogna c’è da interrogarsi sul tipo di reazione che è capace ancora di suscitare oggi, nella generazione del disincanto, l’invito lasciato da Guevara ai propri figli ad essere «sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo».