Mozia, briciola di bellezza

Quest'isola di fronte a Marsala ha custodito i resti del più importante centro punico-fenicio della Sicilia.
mozia

Qui nessun angelo scese dal cielo a fermare lo sterminio di tanti fanciulli innocenti. Qui Abramo compì il suo gesto e innumerevoli volte Isacco venne immolato. Così mi viene da pensare, mentre mi aggiro nell’area sacra del tofet, fra stele ed urne con le ceneri dei primogeniti maschi fenici: sacrificio crudele richiesto non certo dal Dio d’Israele, bensì da Baal Hammon, la divinità che qui si adorava.

 

La brezza piega i finocchi e i gerani selvatici, dimora di migliaia di cicale assordanti; oltre i pini e le agavi il mare pare incandescente; dall’alto di un cielo d’un turchino intenso i gabbiani perlustrano in cerca di cibo. Luogo terribile e bello di una bellezza insostenibile. Distolgo lo sguardo dal campo di morte e cerco una più serena visione: quella di una vegetazione che contende rigogliosa lo spazio ai ruderi riportati alla luce da scavi recenti; o dei vigneti e frutteti che prosperano su di una città fortificata ancora tutta da disseppellire: la favolosa Mozia.

 

Sin dalla fine dell’VIII secolo a.C. il più importante centro fenicio-punico della Sicilia, occupava quasi per intero i quaranta ettari di quest’isoletta di San Pantaleo nella laguna dello Stagnone, di fronte a Marsala. Una strada subacquea di oltre un chilometro – opera mirabile di ingegneria – la congiungeva alla terraferma: tuttora, quando è bassa marea, il suo lastricato è percorribile con carretti trainati da cavalli o a piedi, avendo l’acqua alla cintola.

 

«Ricca di magnifici edifici e di splendidi palazzi» divenne Mozia, al dire di Diodoro Siculo. E ciò grazie ai commerci, per i quali i fenici su agili e leggere navicelle affrontarono pericoli e distanze incredibili. L’ attracco era nel porto artificiale del Cothon, il cui bacino perfettamente conservato è ancora collegato al mare dall’antico canale. Mozia non seppe però opporsi all’invadenza ellenica nel territorio siculo: distrutta dai greci di Siracusa nel 397, venne subito dopo riconquistata dai cartaginesi; ma condannata per l’angustia stessa dello spazio a lenta decadenza, sopravvisse in pratica nella vicina Lilibeo (Marsala). Così, fra traversie che l’attuale tranquillo scenario dello Stagnone non lascia certo immaginare, ogni forma di vita sociale qui lentamente si estinse.

 

Mozia fu preservata dal suo stesso isolamento. Dall’abbandono dei secoli venendo tratta soltanto, agli inizi del ‘900, per merito di Giuseppe Whitaker, l’inglese appassionato di archeologia che questa briciola di terra acquistò per coltivarla a vigneti. Visito il piccolo Museo a lui dedicato, ansioso di rivedere nel luogo stesso in cui fu rinvenuto il cosiddetto "Giovane di Mozia", ammirato anni fa nella grande mostra veneziana sui fenici: una statua raffigurante non un atleta o un eroe, come si era pensato al momento della scoperta, ma dopo gli studi di Paolo Moreno, il dio fenicio Melkart, da cui derivò l’Eracle greco. Greca è senz’ombra di dubbio la fattura dell’opera, ma fenicio-punica è la tunica sottile che ne delinea armoniosamente le forme. Questa singolarità si spiegherebbe col fatto che essa fu probabilmente commissionata da un ricco moziese a un artista greco di una delle tante colonie sicule al tempo in cui tra i due popoli correvano ancora buoni rapporti. Davanti a un tale capolavoro il cui fascino è accresciuto dal suo stesso esser mutilo, si dimenticano le tristi immagini suscitate dal tofet e si contempla solo la bellezza superiore risultante dall’apporto di culture diverse, quando esse felicemente s’incontrano.

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