Mosul, la diga e i jihadisti
Il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha annunciato nei giorni scorsi che la zona est di Mosul è stata liberata dai jihadisti. Ma nella zona ovest della città ci sono ancora 750mila civili sotto il controllo del Daesh.
Ho commentato queste notizie con alcuni iracheni rifugiati in Libano (dove sono circa 180.000). Sono in maggioranza originari del kurdistan iracheno, e provengono dalla regione in cui si trova la diga più grande dell’Iraq (e tra le maggiori del Medio Oriente), quella che una famosa azienda italiana sta cercando di ricuperare. Erano molto sollevati dall’avvio dell’operazione di salvataggio della diga, che considerano un simbolo importante per tutti loro, non solo per i kurdi sunniti ma anche per i cristiani della regione.
L’Italia ha mandato l’estate scorsa 500 militari (circa un terzo del contingente italiano in Iraq) a protezione dei lavori avviati alla diga di Mosul, che si trova sul fiume Tigri ad una cinquantina di chilometri a nord della città. La struttura era in pericolo fin dalla sua inaugurazione nel 1984, al tempo di Saddam Hussein, perché costruita su un terreno carsico in cui l’acqua del bacino scava continuamente delle cavità che, se non tenute sotto controllo, potrebbero far crollare l’impianto uccidendo, si calcola, tra mezzo milione e un milione e mezzo di persone.
L’area invasa dall’acqua arriverebbe in questo caso a 6 Km dalle attuali rive del fiume e Mosul sarebbe investita nel giro di un’ora e mezzo da un muro d’acqua alto da 12 a 25 metri. L’ondata travolgerebbe poi Tikrit e Samarra e dopo 3-4 giorni giungerebbe a Baghdad, distante circa 470 Km, con un’onda di piena alta 2-8 metri.
La diga è un impianto molto importante sia come bacino idrico (11 Km cubi) che consente l’irrigazione del territorio a valle, sia come principale centrale elettrica (oltre 1000 MWatt) dell’area industriale di Mosul-Kirkuk.
Fino all’invasione del Daesh nell’estate 2014, il controllo e la manutenzione della diga era curato da una squadra irachena di 300 dipendenti, tecnici e operai. Con l’occupazione jihadista, anche se durata solo pochi giorni, la manutenzione dell’impianto si è di fatto bloccata per mancanza di personale specializzato e attrezzature (sono venuti meno gli ingegneri, le maestranze e perfino il cemento), mettendo così in pericolo la vita di molte persone e le infrastrutture dell’intera regione. L’anno scorso, con forti pressioni internazionali, il governo iracheno ha assegnato la riparazione dell’area e degli impianti al Gruppo Trevi di Cesena, che ha iniziato i lavori nell’ottobre 2016. Sembra che finora tutto proceda al meglio.
Con gli amici iracheni ci siamo poi soffermati in particolare sui jihadisti. Mi colpisce sempre, quando si parla con loro di queste persone, il dolore che esprimono senza parole, solo con lo sguardo. Sono gli occhi di chi ha sofferto da tutta una vita e per questo sono oltre il giudizio, oltre lo sdegno e perfino oltre le lacrime, che pure hanno versato.
Con grande compostezza affermano che i combattenti jihadisti non appartengono alla loro terra e alla loro gente, sono invasori e la loro provenienza è molto variegata: ci sono certo anche iracheni fra loro, ma sono soprattutto foreingn fighters provenienti da una sessantina o più di nazioni del nord-africa e del vicino oriente; vi sono numerosi ceceni e pakistani e una percentuale del 15% almeno proviene dall’Europa, soprattutto da Belgio, Regno Unito, Francia, Paesi Bassi e Germania.
Ho infine chiesto ad alcuni di loro se, dopo la fine della guerra, pensano di tornare. Sono soltanto alcuni quelli che sperano di poterlo fare.
La maggioranza non se la sente più di affrontare un ritorno che si presenta quanto mai difficile e duro dopo trent’anni di guerre continue e di occupazioni militari senza fine. Sperano solo di trovare un paese in pace dove offrire un futuro ai propri figli.