Mostra di Venezia, una storia da film

La rassegna è nata nel 1932 ed è stata la prima nel suo genere. Non sono mancati momenti difficili, ma il festival ha sempre saputo superarli e ritrovare la strada giusta da percorrere, accogliendo sul tappeto rosso divi e registi da tutto il mondo.

La prima volta fu sulla terrazza dell’hotel Excelsior, tra il mare, i palazzetti in stile liberty e i canali che quadrettano l’isolotto sottile del lido di Venezia. Fu in un’estate di 85 anni fa, prima che qualsiasi altro paese al mondo avesse l’intuizione di organizzare un festival di cinema.

Fu sugli spalti di uno stadio, ad essere precisi, che scoppiò la prima scintilla: il pensiero da cui tutto nacque. Fu per un colpo di genio del commendator Antonio Maraini, che tra le urla per un gol e le parate di un portiere formulò questo pensiero: «Come portare una folla così grande ad una manifestazione artistica?».

Sapeva bene, da critico d’arte qual era – da segretario generale della Biennale – che la gente si accalca più facilmente davanti a un prato calpestato da tacchetti che per l’esplosione di mille colori su una tela. «Però oggi c’è il cinema», pensò subito dopo  l’acuto Maraini: la nuova e strabiliante forma d’arte popolare, quella che il regime fascista aveva già ribattezzato «l’arma più forte».

Maraini ne parlò col conte Giuseppe Volpi di Misurata, allora ministro delle Finanze per Mussolini e imprenditore capace, nel primo dopoguerra, di portare sviluppo industriale sulla laguna veneziana. Volpi possedeva alberghi al lido, e per tamponare il calo dei suoi clienti facoltosi pensò di utilizzare i film e i divi per due settimane di pellicole e di glamour. Non di premi, visto che la manifestazione, inizialmente non prevedeva la competizione.

Pronti e via, allora: 6 – 21 agosto 1932, tutti al cinema e poi a ballare nei saloni dell’Excelsior, con la mente ancora invasa dai faccioni di Greta Garbo, Clark Gable e Vittorio De Sica, tenero e magro dentro Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, dove cantava pure la famosa canzone Parlami d’amore Mariù.

Era il primo film italiano girato in esterni e gli avrebbe portato un gran successo; sarebbe diventato un film importante, come tanti, fondamentali film nella storia del cinema mondiale, che passarono per Venezia già da quel primo esperimento.

Capolavori di Frank Capra, King Vidor e Renè Claire – per citarne solo alcuni – donarono all’avventura un successo superiore ad ogni aspettativa, con 25mila spettatori in quelle prime romantiche ed eleganti notti in laguna. Va da sé che due anni dopo – al passo della più ampia Biennale – il cinema tornò su quelle rive, con la novità della Coppa Mussolini (dal 1935 Coppa Volpi) per i migliori film e attori sia italiani che stranieri.

Perle come Accadde una notte di Frank Capra o L’uomo di Aran di Robert Flaherty sbarcarono in laguna, a conferma di una qualità da subito altissima dei prodotti. Arrivò presto anche il primo scandalo: un nudo integrale dentro film cecoslovacco, prima che dal 1935 la mostra diventasse annuale – con più stranieri, ma senza i sovietici – e che dal 1936 arrivasse la prima giuria internazionale.

Mostra del cinema di Venezia
Palazzo del cinema di Venezia

Nel 1937 fu inaugurato il Palazzo del cinema, in stile modernista, ancora oggi affascinante, e per prima volta la radio divenne ammaliata e allegra cronista degli arrivi in gondola di Marlene Dietrich, Bette Davis e di un giovane Jean Gabin, protagonista de La grande Illusione di Jean Renoir.

Ma il 1937 fu anche l’anno di Scipione l’africano: maestoso kolossal italiano girato a Cinecittà da Carmine Gallone, con migliaia di comparse tra cui un sedicenne Alberto Sordi. Film spettacolare e ideologico, propaganda del regime attraverso un parallelo con la Roma imperiale; opera più abbagliante che riuscita, vincitrice, tuttavia, del premio come miglior film italiano di quell’anno.

Era l’accelerazione di un’ingerenza politica che si sarebbe fatta smisurata già l’anno seguente, con la vittoria del tedesco Olympia di Leni Riefenstahl nella categoria stranieri e di Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini tra gli italiani: due pellicole di pura propaganda, ma almeno la prima (un documentario sulle olimpiadi berlinesi del 1936) possiede valore in fatto di regia.

Gli americani disertarono l’anno dopo un evento ormai sporcato da quelle ideologie che avrebbero condotto alla guerra, portando la mostra lontano dal Lido fino al 1946, quando la libertà e l’internazionalità le avrebbero restituito i suoi livelli precedenti. Ogni Paese fu invitato a tornare, e noi italiani raccontammo il nostro duro dopoguerra con una forza cinematografica mai vista, per molti versi irripetibile: il neorealismo.

Visconti
Visconti

Film come Paisà di Roberto Rossellini (1947), Caccia tragica di Giuseppe De Santis (1947) e La terra trema di Luchino Visconti (1948) passarono per la Mostra come finestre aperte su un’Italia ancora ferita dalla povertà e dalla guerra.

Gli anni Cinquanta le chiusero, spalancando però le porte a cinematografie affascinanti e lontane come quella giapponese, indiana o scandinava. Venezia consacrò Kurosawa (Leone d’oro nel 1951 per Rashomon), Dreyer e Bergman, vide sfilare gli albori della nouvelle vague francese con Le beau Serge di Claude Chabrol (1958) e i diversi talenti del free cinema inglese.

Allevò quei giovani italiani che avrebbero donato un contributo fondamentale al cinema del futuro: su tutti Fellini e Antonioni, ma poi anche Rosi e Olmi, fino al Leone doro ex aequo a Rossellini per Il Generale Della Rovere e a Monicelli per La grande guerra, premiati entrambi nel 1959, il secondo con grandi polemiche per il modo dissacrante in cui smontava il mito della prima guerra mondiale.

Era solo l’antipasto di una scorpacciata di Leoni italiani che va dal 1962 al 1966, con cinque primi premi in cinque anni: Cronaca familiare di Valerio Zurlini, Le mani sulla città di Francesco Rosi, Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, Vaghe stelle dell’orsa di Luchino Visconti, fino a La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, con Venezia elegante accompagnatrice di quell’altro importante momento del cinema italiano che sono gli anni Sessanta.

Sempre col suo stile, in armonia tra critica impegnata e giornalismo di costume, tra militanza e charme, tra arte e spettacolo, con gli storici inviati Rai Carlo Mazzarella e Lello Bersani, volti perennemente col microfono, voci narranti – quando ancora non c’erano internet e i canali tematici – di tradizioni e cambiamenti. Come quelli portati dal Sessantotto che piombò con impeto anche a Venezia, durante l’ultimo anno di Luigi Chiarini direttore, sostenitore strenuo di sobrietà e sostanza cinefila.

A cinque giorni dal via, l’associazione degli autori italiani decise di ritirare i propri film per protesta, con Zavattini che fece sua la lezione degli studenti: «Senza battersi in piazz

a non si combina niente», disse, mentre Pontecorvo si chiedeva cosa sarebbe accaduto con l’uscita di scena di Chiarini direttore.

Pasolini
Pasolini

Pasolini (che portava Teorema) scrisse su “Il Tempo” che avrebbe mandato il suo film alla Mostra per opporsi al «fascismo di sinistra». Come lui, altri registi non impazzivano all’idea di impedire la visione delle loro opere. Alla fine, dopo tanto discutere e senza una inaugurazione ufficiale, si scelse di autogestire la mostra con la presidenza dello stesso Luigi Chiarini, mentre la polizia presidiava il Palazzo del Cinema e durante lo sgombero di una assemblea tirò fuori a forza proprio Zavattini con tutta la sua sedia.

Per dieci anni furono aboliti  i premi e nacquero nuove sezioni a latere del concorso. Nel 1971 venne introdotto il primo Leone alla carriera (consegnato al grande John Ford), ma si stavano aprendo stagioni difficili, con eventi paralleli alla Mostra ufficiale e ben tre edizioni saltate per dissensi interni.

Fu Carlo Lizzani (direttore dal 1979  al 1982) a riportare calma ed equilibrio tra esigenze politiche e spettacolari.Regista e grande conoscitore del cinema, egli rispolverò il Leone d’oro e pensò a un comitato di esperti per la selezione dei film. Diede visibilità al nuovo cinema tedesco (con autori come Von Trotta, Wenders e Fassbinder) e a partire dal grande successo di Guerre stellari organizzò anche riflessioni sulle nuove tecnologie che stavano modificando il cinema.

Lizzani riprese a far danzare riflessione e leggerezza, sorrisi e serietà, divi e cineasti complessi nei contenuti e nel linguaggio, in erba o già affermati. Dai lì, il magico Lido fu di nuovo calpestato dalle mille e necessarie sfumature umane e artistiche; il motore della Mostra riprese il massimo dei giri, secondo quella legge per cui non esistono maestri, star o momenti storici del cinema mondiale estranei alla prestigiosa manifestazione veneziana, che col suo quasi secolo di vita, decisamente ben portato, sfida oggi l’era dello streaming e del digitale, di Neflix e delle serie tv, degli schermi domestici giganti e dei mostruosi telefonini,  delle chiavette e delle sale vuote e piangenti. Viaggiando ancora decisa, in questa sua settantaquattresima edizione, verso nuove e delicate prove.

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