Moroni, il ritratto della normalità

Milano propone alle Gallerie d’Italia il grande maestro bergamasco.  Tra ritrattistica precaravaggesca e suggestioni religiose postridentine. Una lezione di alta umanità
Giovan Battista Moroni - Cavaliere in rosa. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/

Dimenticare i grandi del Cinquecento. I ritratti di Raffaello, Tiziano, Correggio, Sebastiano. Piuttosto, riandare con la memoria a Lorenzo Lotto. Ma non alla sua solitudine angosciosa e angosciante, per cui la scena di questo mondo – una scena di cui volenti o meno si fa parte – ci aggredisce portandoci spesso amarezza. Ma, ricordare Savoldo, i suoi lumi semplicemente naturali, i personaggi spontaneamente nobili: nessun piano superiore, nessun ruolo da ricoprire o da tramandare ai posteri. Il gigantismo del rinascimento è cosa lontana da Savoldo. E da Moroni.

Pittore per fortuna oggi rivalutato, Giovan Battista Moroni è un ritrattista  geniale ed unico del secondo‘500.

La tela più affasciante è il Cavaliere in rosa del 1560.  Vestito “alla spagnola” con un abito di seta è un trionfo di verosimiglianza senza alcuna idealizzazione. Sorprendente. La qualità della luce che scorre delicata e morbida a ravvivare le sfumature del color corallo, sul fondo di un muro sbrecciato e di un cielo nebuloso, è diversa dagli altri pittori suoi contemporanei. Una luce quieta, non dorata, anzi, velata: uno squillo raccolto, un parlare a voce né alta né bassa, poche scarne parole.

Ma che intensità, in quel volto giovanile di Gian Gerolamo Grumelli, le guance arrossate, la barba aristocratica. Lui ci guarda, ma anche ci sfugge: timidezza padana, sobrietà lombarda.

Nessun intellettualismo manierista in quest’arte, nessuna aggressività veneziana, alcuna superiorità “romana”. Il colore, certo, è caldo, come la giovinezza. Ma temperato dalle anticaglie sul pavimento, dal motto inciso sul bassorilievo, dall’edera sul muricciolo: simbolismo sereno, eleganza severa, nonostante lo sfavillio tonale.

Sono i tratti di Giambattista Moroni. Lo si ritrova negli altri personaggi ritratti, ma pure nelle sue composizioni sacre, il cui lato pietistico – così postridentino, nella versione ascetica di un Carlo Borromeo – è sempre equilibrato da un’aria di normalità. La vita si presenta da sé stessa, nel suo scorrere, senza commenti. I coniugi Spini, ad esempio. Ritratti al naturale, a figura intera (circa il 1573) dal nero del velluto e dal candore della gorgiera, guardano verso di noi, ma pure ci interrogano.

Moroni  li copre con una luce diffusa ,senza accenti drammatici.  Illumina, ma non li indaga. Lascia a noi il compito di decifrare la parola silenziosa di gente abituata più alla concretezza del fare che all’apparenza del dire. Nessuno infatti dei personaggi moroniani è uomo di spettacolo, come talora appare in Tiziano.

Anche in un soggetto sacro – l’Ultima cena a Romano di Lombardia – attento ai dettami postconciliari severamente controllati dal Borromeo, Moroni rappresenta una cena familiare dove si parla, si prega, senza animazione. I volti sono quelli bergamaschi, tratti regolari, calvizie naturali, barbe curate: rapporti schietti e diretti, parole concise. Il fatto sacro calato nella vita dei giorni, da cui tanto imparerà Caravaggio: le opere e i giorni, insomma, di una vita fotografata quasi si direbbe senza ambizioni artistiche. Ed è questo un altro tratto stupefacente in Moroni.

In un’epoca di giganti, non si mette in concorrenza con i geni, non soffre il disagio del confronto, come un Lotto, o la lotta per imporre la propria visione, come un Tintoretto.

Egli si presenta così come è, senza complessi. Allo stesso modo presenta i suoi personaggi. Il Devoto davanti al Crocifisso (1574 circa) – a sant’Alessandro della croce (Bergamo) – a prima vista parrebbe una pala devozionale col  pio committente, un uomo vestito di scuro – ormai è lontana l’eleganza variopinta del primo rinascimento – dal volto segaligno e rugoso. Devozione sincera, non c’è dubbio. Ma la novità  sta piuttosto nel paesaggio sullo sfondo, tanto che l’indice del devoto si potrebbe facilmente spostare dalla crocifissione  al paese che “commenta” la scena. Ed è un paese di straordinaria novità, tutto nebbie velate, colline muschiose, temporali in sordina. Intriso  con un pennello di luce fioca che talvolta si ravviva in brillii improvvisi. Un paesaggio  e una tecnica che vorremmo dire già  “impressionista”: priva tuttavia della volontà di rappresentare positivisticamente la natura “com’è “. Moroni non è un ideologo, egli la vede questa natura, vive in questo  paesaggio, lo descrive: quasi non si accorge che la poesia gli scappa di mano, si ferma sulla tela, forse con ritrosia. Un aspetto questo che certo non ha giovato alla considerazione dei posteri sulla sua arte, così poco eclatante.

In un’Italia in preda agli intellettualismi manieristici o ai pietismi devozionali, lui non si scompone. Sforna in provincia decine di pale d’altare – addirittura un Giudizio pseudomichelangiolesco-  ma la sua vena più creativa è la ritrattistica. Guardarli questi signori che ci osservano – in un misto di sorpresa, diffidenza e di richiesta – col sopracciglio alzato, con i volti per nulla idealizzati, e sono avvocati, ecclesiastici, gente-bene della provincia.

Guardare quel Sarto (1570, Londra, National Gallery), che si fa ritrarre con la forbice  mentre è al lavoro: non sorride, non è triste, è un uomo che fa il suo dovere, che lavora e ne trae benefici (l’anello al dito). Nessuna gloria impossibile, nessuna testa aureolata. Questa è gente di poche parole e molti fatti. Davanti al pennello di Moroni, alle sue stupende luci grigie, al tono argentato delle atmosfere cromatiche, si fermano e stanno in discreta confidenza. Parlano con gli occhi. Ma anche con le mani. Osservarle queste mani. Sono davvero tanto composte? O non aspettano il momento di alzarsi e accompagnare con gesti efficaci un discorso franco e spontaneo?

Senza alcuna smanceria o grandeur. In tante tele, Giambattista ne ha colto le parole di amore concreto per la vita, di lavoro fatto con un impegno quasi sacro. La tela del Sarto infatti pare  una sorta di canonizzazione laica della sacralità del lavoro umano, delle ore che scorrono laboriose. Ma c’è un’anima che guida tutto questo. Moroni l’ha cercata, trovandola prima che Caravaggio la gridasse. Riscoprirla è il fascino e il messaggio di questa mostra.

 

Giovanni Battista Moroni. Il ritratto del suo tempo. Milano, Gallerie d’Italia. Fino al 1 aprile (catalogo Skira)

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