Morire e rinascere a San Giovanni in Fonte
San Giovanni in Fonte è l’unico esempio di antico battistero fondato direttamente su una sorgente, e quindi perennemente immerso nell’acqua limpidissima alimentante la vasca battesimale. L’avesse conosciuto, ne avrebbe di sicuro tratto ispirazione Tarkovskij, il regista russo che nei suoi film, in scene di rara bellezza girate anche in siti italiani, ha costantemente utilizzato questo elemento, l’acqua appunto, quale simbolo di vita, di purezza, di sete di conoscenza e di tensione al Sacro.
Per raggiungere questa importantissima, ma poco nota testimonianza dell’Italia paleocristiana, bisogna portarsi in Campania, nel cuore del Vallo di Diano a metà strada tra i confini di Padula e Sala Consilina. E precisamente nell’area di un agriturismo, “Le Fonti”, che alla ristorazione unisce le conserve tipiche locali e un vivaio di trote allevate in grandi vasche. Se libero dalle sue faccende, il proprietario, persona cordiale, non mancherà di accompagnarvi nella visita al monumento e di fornirvi qualche spiegazione.
Prima però qualche notizia storica. La località in cui ci troviamo era attraversata in antico da un importante asse viario, punto di convergenza tra Bruzio (l’odierna Calabria), Lucania e Roma. Sobborgo della città romana di Consilinum, qui sorgeva Marcellianum, nome derivato probabilmente da papa Marcello al cui pontificato (inizi del IV sec.) si fa risalire il battistero di cui parlo, eretto su un tempio pagano dedicato a Leocotea, ninfa delle acque. Citato per la prima volta nell’anno 527 in una lettera di Cassiodoro al re ostrogoto Alarico, l’edificio è ricordato soprattutto per il prodigio, unico nella cristianità, della crescita delle acque in occasione del battesimo dei catecumeni, come pure per l’importante fiera in onore di san Cipriano che il 16 settembre vedeva affluire in questi paraggi genti di diversa etnia. Sopravvissuto a invasioni e distruzioni, nel 1077 il battistero diventò proprietà dei benedettini della SS. Trinità di Venosa quale chiesa intitolata a San Giovanni delle Fonti, assumendo col tempo l’aspetto di un vero e proprio edificio conventuale.
Sotto Ruggero il Normanno, re di Sicilia, e per volere di papa Bonifacio VIII, il monastero venosino divenne commenda dei Cavalieri di Malta e subì profonde trasformazioni. Poi il lento declino e, nei secoli successivi, il suo passaggio di mano in mano fino ad essere incamerato ne beni della Certosa di Serra San Bruno. Chiesa e battistero, comunque, furono agibili fino agli inizi del Novecento al servizio della circostante comunità rurale, per poi cadere in rovina. A partire dal 1985, il restauro integrale del monumento, la sistemazione dell’area circostante (con viale d’accesso e punto d’accoglienza) e la liberazione dell’antica vasca lustrale da una orrenda piattaforma di cemento che nascondeva la vista delle acque.
Date le trasformazioni e le aggiunte delle varie epoche, non è facile riconoscere la struttura primitiva del battistero. Il nucleo più antico, realizzato in laterizi e inserti lapidei provenienti, per lo più, dai ruderi di una vicina villa romana, si presenta come un’aula absidata con il fonte battesimale coperto da un tamburo ad ottagono, sostenente una cupola (ora crollata). Per adattarsi alla sorgente che alimentava la vasca, l’abside è posta ad Occidente, anziché ad Oriente come nella maggior parte delle costruzioni bizantine. Sulle murature, specie nell’abside, si notano resti di affreschi attribuibili ai secoli XI e XII: immagini di santi dei quali è arduo riconoscere l’identità. Quelli più antichi, databili tra il VI e VII sec. e raffiguranti i volti degli evangelisti, decoravano un tempo i pennacchi della cupola: distaccati, sono attualmente custoditi presso la celebre Certosa di Padula.
Entriamo e subito, immersi nella penombra, rimaniamo suggestionati da queste mura rustiche aperte al sussurro del vento e al volo degli uccelli, da questo recinto di pace invaso da acque così cristalline che il fondale di pietre traspare perfettamente, come nella stupenda pala del “Battesimo di Cristo” del Bellini, a Vicenza.
Col pensiero torno indietro di secoli. È la notte dell’Epifania, in cui vengono celebrati i battesimi secondo il rito orientale. Dentro e attorno al sacro edificio si stipa una folla composta per lo più da contadini, pastori, mercanti venuti anche da lontano per assistere al prodigio dell’acque. L’interno dell’aula lustrale è rischiarato da una moltitudine di lampade, mentre volute d’incenso s’alzano verso la cupola affrescata. Tra canti solenni, i neobattezzati si stanno rivestendo di candido lino dopo essersi immersi nudi nell’acqua gelida ma rigenerante. E a loro rivolte dal sacerdote, m’immagino di sentire parole come queste, che prendo in prestito a Cirillo d’Alessandria:
«Per mano siete stati condotti alla santa piscina del divino battesimo come il Cristo dalla croce alla tomba che vi è davanti. Ognuno è stato interrogato se crede nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Avete fatto la confessione salutare e vi siete immersi per tre volte nell’acqua e di nuovo siete risaliti simboleggiando la sepoltura di tre giorni del Cristo. Come il nostro Salvatore passò tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così anche voi con la prima emersione avete imitato il primo giorno del Cristo sottoterra e nella immersione la notte…».
Gorgoglia l’acqua su cui ha aleggiato lo Spirito. Nel suo fenomeno di crescita ha ricoperto anche gli ultimi due gradini della vasca, che ne comprende sette. E il sacerdote continua: «… Nello stesso tempo siete morti e rigenerati. Quest’acqua salutare fu la vostra tomba e anche la vostra madre. Ciò che disse Salomone per altre cose si può adattare a voi. Nel passo, infatti, disse: “C’è il tempo di rinascere e il tempo di morire”. Per voi l’inverso: il tempo di morire è il tempo di rinascere. Un solo tempo ha conseguito le due cose: la vostra nascita ha coinciso con la morte».