Morì più volte e l’ultima per davvero

La storia di Bassilla di Aquileia, la cui arte mimica le meritò il titolo di “decima musa”.

Che folla di graditi ricordi mi rievoca la notizia dell’inaugurazione, venerdì 3 agosto, del nuovo allestimento del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, le cui rovine visitai un’estate di molti anni fa durante una vacanza in Friuli-Venezia Giulia! Non basterebbe questo itinerario per dire qualcosa di quello che fu uno dei grandi centri nevralgici dell’Impero romano ed una delle capitali storiche di quella regione. Mi limito perciò a ciò che ammirai nel Museo, il più importante dell’Italia settentrionale per ricchezza di reperti che ben rendono l’idea del grado di splendore a cui assurse la città. E anche qui devo limitarmi solo ad alcuni di essi.

Ubicato nella ottocentesca Villa Cassis Faraone, ma in seguito più volte ampliato per accogliere le sempre crescenti collezioni, è internazionalmente famoso per le statue, i raffinati mosaici, i tanti oggetti legati alla vita quotidiana e all’ornamento personale, nonché per le gemme e ambre del Baltico di cui Aquileia fu centro di lavorazione e di smistamento commerciale grazie alla strada che, diramandosi da essa, arrivava fino al Nord Europa.

Sorvolo purtroppo su tutto ciò per soffermarmi invece sulle stele e i monumenti funerari disseminati nelle Gallerie lapidarie, oltre che nel bellissimo giardino ombreggiato da alberi secolari: tutti reperti che nella varietà dei loro modelli offrono una quantità sterminata di informazioni sulle provenienze, le consuetudini sociali e famigliari, le professioni, le credenze religiose e l’abbigliamento degli antichi aquileiesi. Ognuna di queste testimonianze, al di là del linguaggio sintetico che le caratterizza, ci fa intravedere una storia, ci restituisce un frammento di umanità capace di renderci vicino il personaggio a distanza di secoli.

Senza numero appaiono le stele dei milites delle legioni XI Claudia e I italica, incaricate della difesa dei confini orientali di Aquileia; databili tra la fine del III secolo d. C. e la prima metà del IV, portano incisi molti nomi i quali tradiscono l’origine barbara. Nel nostro giro facciamo conoscenza con Trosia Ilara, qualificatasi tessitrice e cucitrice di lane che offriva i suoi servigi a domicilio. Bottaio è invece di mestiere Lucio Canzio Acuto, come risulta dalla botte panciuta fatta incidere sul suo monumento recante, sulla cornice, anche il suo instrumentum: ascia, falcetto, raspa, roncola. Tra gli altri incontriamo anche un marinaio fiero di indossare la toga, con accanto i simboli del suo lavoro: l’ancora e il timone. E un banchiere intento a contare monete accanto ad una cassaforte dai piedi rialzati e irrobustita da lamine di ferro. Singolare è la stele del medico Agio Aio, databile alla fine del I secolo a. C.: vi è rappresentata una porta a quattro battenti, simboleggiante l’ingresso nell’Ade, il regno dei morti.

Una tipologia funebre diffusa anche sulla costa dalmata, dalla quale probabilmente trasmigrò in Italia. E poi Caio Cornelio Successo, morto a soli 17 anni e già con due mestieri: sull’ara funebre è raffigurato, da un lato, in divisa militare, dall’altro nell’atto di sventrare un maiale. Macellaio fu anche Lucio Sestilio Crescente, che sul suo cippo volle scolpiti gli arnesi da lavoro: il gancio al quale appendere la carne, il “marrancio” ossia il grande coltello per tagliarla a quarti e quello più piccolo per ricavarne fette. Notevole è anche l’urna che conteneva le ceneri di Amianto, bambino morto a cinque anni: la sua forma a cesto di vimini sembra alludere ai misteri eleusini con le annesse pratiche di preparazione all’aldilà; la stessa grande pigna sormontante il coperchio è un simbolo legato tanto alla morte quanto alla speranza di immortalità.

Ma ecco la stele che più di altre attirò la mia attenzione: datata ai primi decenni del III secolo d. C. appartiene a Bassilla, mima e danzatrice morta durante uno spettacolo o nel corso di una tournée ad Aquileia. Il suo busto-ritratto scolpito a rilievo in un medaglione ovale la mostra con una pettinatura “ad elmo” tipica dell’epoca dei Severi e indossante chitone e peplo, da cui fuoriesce la mano destra con l’indice e il medio tesi nel gesto oratorio. I suoi colleghi dettarono la lunga iscrizione greca che copre buona parte del monumento: «A colei che presso molti popoli e in molte città ebbe sulle scene fama ed onori nelle danze e nella recita e fu valentissima e squisita nel mimo, che spesso morì sulle scene, ma mai in questo modo. Alla decima musa, alla mima Bassilla, consacrò questo ricordo Eraclio, giocondo attore arguto nel parlare. Gli stessi onori ottenne da morta, riposando in luogo sacro alle muse ed all’arte. I tuoi colleghi ti dicono: “Fatti animo, Bassilla: nessuno è immortale!”».

Dagli antichi autori sappiamo che il genere artistico del mimo comprendeva oltre alla recitazione (non sempre su testi, ma dando spazio all’improvvisazione) anche la musica e la danza, e che a chi interpretava il ruolo di attore o di attrice era richiesta una notevole gestualità facciale e corporea, in quanto recitava da muto, privo di quella maschera che, com’è noto, amplificava la voce.

Cosa si rappresentava? Per lo più scene di vita quotidiana con effetti grotteschi e di crudo realismo, o parodie di generi letterari più elevati. Un tipo di spettacolo che, se riusciva altamente gradito al popolo, non sempre raccoglieva i consensi di un pubblico più raffinato; tanto più che le mimae si attiravano anche l’accusa di essere di facili costumi.

Per tornare a Bassilla, mi ricordai di lei nel 2008 quando appresi la notizia della morte di Miriam Makeba, la grande cantante sudafricana di jazz e world music nota anche per il suo impegno politico contro il regime dell’apartheid e per essere stata delegata alle Nazioni Unite. Un attacco cardiaco l’aveva stroncata la notte del 9 novembre di quell’anno a Castel Volturno, in Campania, alla fine di un concerto in ricordo di sei immigrati africani uccisi lì due mesi prima dalla camorra.

Bassilla e Miriam Makeba, due artiste accomunate a distanza di secoli dalla musica e dal loro morire sulla scena. All’elogio della prima inciso sulla stele aquileiese sembra far eco il commento fatto da Nelson Mandela alla scomparsa della cantante africana: «Giusto così che gli ultimi momenti di vita di Miriam siano passati sul palcoscenico. Le sue melodie hanno dato voce al dolore dell’esilio che provò per 31 lunghi anni, e allo stesso tempo la sua musica effondeva un profondo senso di speranza».

 

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