Monti Nuba, il nuovo Sud Sudan

Nel Sud Kordofan sta avvenendo ciò che alcune ong hanno denunciato come crimini di guerra e contro l’umanità. Nel silenzio dei media e della comunità internazionale
monti nuba

Probabilmente, la maggior parte di noi non saprebbe trovarli su una cartina geografica: i monti Nuba, nello Stato sudanese del Sud Kordofan, non sono parte della geografia che si studia a scuola. Eppure proprio qui, nell’assordante silenzio del mondo, sta avvenendo ciò che Amnesty International e Human Rights Watch non hanno esitato a definire “cimini di guerra e crimini contro l’umanità”: il Sud Kordofan, infatti, è uno dei 5 Stati sudanesi su 16 in cui è in corso un conflitto. Di questi, soltanto il Darfur si è tristemente guadagnato gli onori delle cronache: ma, passata la fase più acuta dei combattimenti, l’oblio è tornato a cadere sulla zona.

 

La storia inizia dalla ventennale guerra civile che ha contrapposto il Nord e il Sud del Sudan sin dagli anni Ottanta, lasciando dietro di sé circa due milioni di morti. Non solo una questione etnica – popolazioni di origine araba a nord, africana a sud – o religiosa, ma anche e soprattutto economica: i pozzi di petrolio si trovano nella parte meridionale. Le politiche di Khartoum, volte a favorire gli arabi, diventavano quindi strumento di esercizio del potere anche sulle zone del Paese abitate da altre popolazioni. L’esercito governativo e le milizie del Sudan’s People Liberation Army (Esercito popolare di liberazione del Sudan, Spla) si sono combattute fino al 2005, quando il Comprehensive Peace Agreement (Accordo complessivo di pace, Cpa) ha posto momentaneamente fine alle ostilità. Il Cpa prevedeva delle non meglio specificate “consultazioni popolari” negli Stati meridionali del Paese, ma i tempi per arrivarci sono stati biblici: soltanto nel gennaio del 2011 si è votato nel referendum che ha aperto la via all’indipendenza del Sud Sudan, ufficializzata il 9 luglio. Dai suoi confini e dalle urne, tuttavia, sono state lasciate fuori tre zone contese tra Khartoum e Juba: Abyei, il Nilo Azzurro, e – appunto – il Sud Kordofan.

 

Come è facile immaginare, il Nord in quei sei mesi non è stato a guardare: questi tre Stati, abitati da popolazioni africane come il Sud e quindi desiderose di farne parte, sono gli unici tra quelli ricchi di petrolio rimasti a nord del confine. A maggio in Sud Kordofan si è votato per l’elezione del governatore: il candidato sostenuto dal regime di Bashir, Ahmed Haroun, sul cui capo la Corte penale internazionale fa pendere 40 crimini di guerra per i fatti del Darfur, ha vinto per soli 6 mila voti sullo sfidante dell’Splm, Abdul Aziz, tra accuse di brogli e violenze. Con l’avvicinarsi della data fissata per l’indipendenza del Sud, le politiche repressive di Khartoum si sono intensificate: e così, dopo aver occupato militarmente la regione di Abyei il 20 maggio, il 5 giugno sono iniziati i bombardamenti indiscriminati sui civili in Sud Kordofan.

 

Ufficialmente si è trattato di un attacco in risposta ai ribelli dell’Spla, ma è difficile non pensare ad un’azione pianificata. Alcuni testimoni hanno riferito di irruzioni e catture portate avanti casa per casa secondo vere e proprie “liste di prescrizione” stilate in precedenza, e anche la Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale) ha dichiarato di aver ricevuto dal governo 2500 body bags (sacchi per i cadaveri) già prima dell’attacco: troppo poche, peraltro, perché già a fine mese ne ha chieste altre. Difficile fare stime di qualunque genere, dato che ong, giornalisti e stranieri in generale che non erano già fuggiti sono stati espulsi dalla zona: si parla di 20 mila miliziani dell’Spla contrapposti a 70 mila soldati governativi, e oltre 200 mila sfollati nei Paesi vicini. I combattimenti hanno impedito di coltivare i campi, e il blocco aereo e stradale imposto da Khartoum non consente di portare cibo e medicinali: già a luglio Brad Phillips, della Prosecution Project Foundation, ha dichiarato che «dalle 70 alle 90 mila persone rischiano di morire di fame nei prossimi due mesi».

 

La comunità internazionale si è mossa con lentezza: se l’Unione africana già 28 giugno era riuscita a negoziare un accordo, peraltro sconfessato cinque giorni più tardi da Bashir, soltanto a metà agosto le Nazioni Unite hanno preso nota della situazione. Dopo la rottura di un altro fragile coprifuoco il 23 agosto, i combattimenti si sono estesi al Nilo Blu ad inizio settembre, provocando già nei primi giorni la fuga di altre 30 mila persone attraverso il confine etiopico.

 

Ed ora? Le domande aperte rimangono molte. Se c’è chi ritiene che l’aver lasciato al Nord le tre zone contese sia stato il “prezzo da pagare” per l’indipendenza del Sud e per “circoscrivere” una potenziale e ben più disastrosa guerra tra i due Stati, gli osservatori iniziano a chiedersi fino a che punto il governo di Juba, guidato dagli ex ribelli dell’Splm, potrà stare a guardare. Un’altra domanda lecita riguarda la tenuta del regime di Bashir, di fronte a conflitti che coinvolgono una parte sempre maggiore del territorio. Un attaccamento al potere sempre più disperato:il dittatore, infatti, è ricercato dalla Corte penale internazionale, davanti alla quale sarebbe chiamato a rispondere di crimini contro l’umanità nel momento in cui dovesse cadere. Forse – afferma Eric Reeves, editorialista del Sudan Tribune – è lui quello ad avere più interesse nel proseguire il conflitto.

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