Il mondo del Don Carlo
Solitudine, incomprensione, incomunicabilità. Lotta contro i poteri forti, desiderio di ideali e di amore. C’è il mondo, tutto l’uomo di sempre nell’opera monumentale che Verdi ha scritto per Parigi nel 1867 in cinque elaborati atti con balletti e scene di massa, come voleva il Grand Opèra. Scontento, poi l’ha rifatta più volte, tagliandola e rimaneggiandola per anni. Il motivo si capisce presto. Davanti ad un lavoro così complesso che indaga le pieghe più riposte dell’animo umano, di fronte all’unica opera musicale che affronta esplicitamente il contrasto tra assolutismo e liberalismo, stato e chiesa, oltre alle passioni personali, c’è bisogno di sintesi, di una lettura chiara che l’immensità della partitura potrebbe rendere difficile per l’ascoltatore. E Verdi era uno che non amava le lungaggini in teatro, anzi aveva sempre voglia di arrivare in fretta alla fine.
Tratta dal testo omonimo di Schiller, anno 1787, ma anche attingendo ad altri lavori, l’opera verdiana è incentrata su quattro percorsi: il contrasto padre-figlio (tema onnipresente in Verdi), ossia tra il re Filippo II e il figlio Don Carlo; l’amore impossibile tra il principe, fragile e troppo emotivo, per Elisabetta, sua ex fidanzata e ora sposa del padre; il duello tra l’idealista Marchese di Posa e la gelosa principessa d’Eboli (la gelosia, tema tipicamente verdiano); e il dialogo impossibile tra due giganti, il re e il Grande Inquisitore.
Naturalmente, e Verdi lo sapeva, non c’è da aspettarsi un rapporto con la realtà storica: Don Carlo non è mai stato un eroe, anzi, il matrimonio tra il re ed Elisabetta non fu infelice e Filippo non era così succube della chiesa. Ma al compositore non interessava troppo, egli desiderava mettere in scena il tumulto delle passioni umane estreme. Don Carlo risulta così un quadro complesso della vita e della storia dell’uomo, in ogni tempo. Domina un’atmosfera dolentissima dei singoli e dei popoli (la delegazione fiamminga a cui il re è ostile nella grande scena dell’Autodafè), e in particolare l’immensa solitudine del potere che deve opprimere i sentimenti più veri, creando intorno infelicità. Nella cornice di momenti maestosi, si inseriscono duelli epici: tra il re e Posa, amico di Carlo e fautore di ideali di libertà e l’assolutismo regale, e lo scontro tra Filippo e l’Inquisitore, sulla musica strisciante degli archi gravi, che dice morte.
Ma su tutto giganteggia il cuore di Verdi, il suo sentimento di pietà per gli oppressi, chiunque siano. Così abbiamo la straordinaria scena di Filippo insonne (“Ella giammai m’amò”) colma di note strazianti e vere, l’entusiasmo amicale di Posa e Carlo (“Dio che nell’alma infondere”), le scene di massa e di ribellione, il rimorso della gelosa Eboli (“O don fatale”) e l’orchestra curatissima, dai colori cangianti e robusti.
Al Teatro alla Scala milanese Myung-Whun Chung ha diretto l’edizione italiana in cinque atti senza balletto. Una direzione illuminata, ampia, profonda dove la bellezza sinfonica del tessuto orchestra è stata evidenziata come si deve. Meravigliosi gli archi (i violoncelli nell’assolo della scena dell’Autodafè), duttili gli strumentini, possenti gli ottoni. Il canto, onnipresente in Verdi, anche in orchestra, è stato largo, cordiale,sostenuto. Cast di tutto rispetto: il Filippo grave di Ferruccio Furlanetto, lo squillante Don Carlo di Francesco Meli, il morbido Rodrigo di Simone Piazzola (cui consiglieremmo di far molto Bellini e Donizetti in attesa di irrobustire la bella voce e toglierle alcuni vezzi) e la bravissima Elisabetta di Krassimira Stoyanova, voce fresca, tecnicamente agguerrita. Non troppo memorabili la Eboli di Béatrice Monzon e l’Inquisitore di Eric Halfvarson. La regia di Peter Stein, equilibrata, ha puntato sulla espressività dei cantanti-attori, rendendola credibile nella gestualità e nel movimento. Belle, stilizzate le scene di Ferdinand Wogerbauer tra passato e presente, prive di inutili ridondanze e coerenti con la direzione e l’interpretazione musicale. Spettacolo bello, cesellato. Da rivedere. Repliche sino al 12 febbraio.