Molti troppo poveri e pochi troppo ricchi
L’economista Pelligra legge i dati Istat sulla riduzione del reddito. «Abolire l’Ici ha portato tagli alla spesa sociale. Tasse sui patrimoni? Impopolari ma necessarie».
I recenti dati dell’Istat parlano di un calo del reddito delle famiglie del -2.7% e la diminuzione del potere d’acquisto anche del 9.6%. Abbiamo chiesto un commento a Vittorio Pelligra, economista e docente all’Istituto universitario Sophia.
Stavolta i numeri delle rilevazioni dell’Istat sembrano dar ragione al sentire comune, nonostante gli spot incoraggianti sulla crescita. Siamo davvero tutti più poveri?
«I dati indubbiamente confermano una percezione diffusa nelle famiglie, che hanno visto ridurre progressivamente la capacità di acquisto. L’ottimismo, che a più livelli si vuole diffondere, è in certo senso una misura politica da adottare soprattutto in questi tempi, perché la crisi si alimenta di panico e sfiducia della gente per cui va tamponata. Investitori e risparmiatori vanno tranquillizzati in modo da scongiurare una corsa agli sportelli. Se tutti pensano di essere più poveri, magari non tutti lo sono di fatto, però si spende meno e si fanno meno investimenti e non si alimenta l’economia e quindi è un pericolo che bisogna scongiurare».
Ma i soldi di fatto non ci sono e neppure i servizi…
«Dicevo che non basta infondere ottimismo, bisogna agire a sostegno del reddito delle famiglie e su questo si è fatto poco. Nella rilevazione Istat è interessante la differenza tra Nord e Sud. Quindi si potrebbe dire che il Nord è diventato più povero? In realtà nel Nord, essendoci un livello di occupazione più elevato, la crisi ha portato un numero di disoccupati maggiore rispetto alla situazione precedente, mentre nel Sud la disoccupazione era già elevata, per cui la crisi ha marginalmente inciso, perché il livello base era già basso. Il punto vero è che insieme al potere d’acquisto le famiglie hanno perso tutta una serie di servizi che venivano assicurati dai maggiori trasferimenti dello Stato centrale agli enti locali che garantivano in questo modo welfare, asili, trasporti pubblici: servizi di cui usufruivano le famiglie con reddito più basso. Basta pensare agli asili che ormai hanno rette proibitive per molti. L’eliminazione dell’Ici poi ha ulteriormente drenato risorse per gli enti locali e quindi l’impoverimento è stato doppio: riduzione di reddito e di servizi insieme».
Il federalismo fiscale potrebbe garantire la qualità e la quantità della spesa?
«Il principio federale vuole unificare responsabilità e centri di spesa e parte dal principio che chi spende è responsabile, perché quei soldi arrivano da un prelievo locale e hanno i nomi dei propri cittadini. Il principio funziona ma suscita dubbi la modalità con cui verrà applicato perché le regioni non partono dalle stesse condizioni. Ci sono sperequazioni evidenti nella qualità della Pubblica amministrazione, più alta al nord e meno al sud, come del resto la capacità di spesa. Ora che si colleghi la capacità di spendere alla capacità della classe politica e quindi alla conseguente capacità di punire da parte degli elettori chi ha speso male mi lascia perplesso. Spendere male non sempre porta automaticamente al ricambio di una classe politica, poiché in luoghi, dove la società civile non è attiva e ci sono infiltrazioni di poteri forti, questo automatismo può saltare. In quei casi infatti, la classe politica non è solo espressione del voto dei cittadini».
Ma le politiche adottate fino a questo momento per uscire dalla crisi hanno avuto effetti positivi?
«Si è investito molto sulla fiducia, ma la fiducia non è cieca. Se le persone si rendono conto che l’operazione di promozione della spesa è un maquillage, la fiducia crolla inesorabilmente e non può essere questo l’unico investimento in un trend di lungo periodo: operazioni psicologiche e spot non sono sufficiente. Quello che, a mio avviso, non si è fatto è stato tamponare la perdita di potere d’acquisto. Non c’è stato un sostegno dei redditi, né dal punto di vista del trasferimento delle risorse (vedi abolizione Ici, non sostituita da altro), né dal punto di vista degli sgravi fiscali. Mi sembra che nulla sia stato fatto per il quoziente familiare e nessuna misura di sostegno è stata adottata per i redditi più bassi. Tutti ricordiamo cosa doveva essere la social card e cosa in realtà è stata: un’operazione di marketing».
Si torna a parlare di tassazione di patrimoni, ma non si prendono misure concrete. Perché?
«Tassare i patrimoni è una misura impopolare, ma non si spiega che non ci saranno misure predatorie ma piuttosto proposte per riportare le aliquote fiscali italiane a livello degli altri stati europei, perché qui ci sono tante agevolazioni. Se ne parla di frequente perché si sta raggiungendo un punto di rottura nella diseguale distribuzione dei redditi. Quando il sistema economico incrementa il divario in una fase di recessione economica, la percezione della povertà diventa intollerabile. Io sono favorevole ad una contribuzione maggiore da parte di cittadini con redditi elevati per produrre beni pubblici. Resta poi da capire chi è ricco e quale patrimonio tassare».
Che segnale lancerebbe una tale soluzione?
«Produrrebbe indubbiamente una mobilitazione dei capitali. Nell’economia italiana le grandi ricchezze derivano da posizioni di rendita che fanno male all’economia: i rentiers sono una classe parassitaria perché mantengono una ricchezza improduttiva grazie ad agevolazioni fiscali. Rendendo meno vantaggiose le condizioni delle rendite, sposti capitali sulla produzione e sugli investimenti e l’economia potrebbe sul serio averne vantaggi».