Moby: il piccolo genio

Tra gli eroi del rock dell’ultima generazione è forse il più geniale. O il meno banale. Il signor Richard Melville, in arte Moby, ha pienamente confermato i sospetti con la recente pubblicazione del suo settimo album. 18 (Virgin), deve il titolo al numero dei frammenti che lo compongono e al fatto che il suo autore ha voluto che ciascuno potesse pronunciare il nome del suo ultimo pargolo nella propria lingua. Ma questi sono dettagli: la cosa importante che emerge dal contenuto è una sapiente miscela di modernità hiphop e tradizione soul tale da renderlo uno dei prodotti più intriganti di questa stagione. Il “piccolo idiota” (la definizione è sua) è nato a New York l’11 settembre di trentasette anni fa. E va da sé che il suo ultimo compleanno, passato tra la finestra di casa e la tivù ad assistere in diretta alla tragedia delle Twin Towers, ha lasciato il segno nel suo modo di concepire la musica e il senso stesso della vita. Tutto ciò non poteva trovare qualche riscontro anche in questo suo ultimo lavoro, anche se le canzoni sono state composte tutte precedentemente. È l’inquietudine di fondo che si respira tra i solchi e che s’incrocia con sentimenti e sensazioni trasversali, tipici di ogni età di transizione, ma anche di un marinaio che dopo un decennio di faticoso galleggiamento ha trovato l’onda giusta: quella che può trasformare la più precaria delle bagnarole nel più lussuoso dei panfili. A Moby è accaduto tre anni fa con un album, il precedente Play, non solo capace di vendere più di dieci milioni di copie, ma addirittura di prestare tutte le tracce presenti ad altrettanti spot pubblicitari, segno inequivocabile di trendysmo da Guinness. Da allora il timido e lontanissimo discendente del Melville di Moby Dick ha dovuto fare i conti con una popolarità davvero planetaria, foriera di valanghe di dollari e di stress, dell’amore incondizionato dei fans (costantemente e personalmente aggiornati del proprio umore tramite il suo sito Internet) e di molte invidie dell’ambiente. A quanto pare tutto ciò non l’ha cambiato più di tanto, e non è bastato a trasformare questo nuovo attesissimo disco nella trappola nella quale spesso incappano le rockstar reduci da troppo improvvisi successi. 18 in effetti convince fin dal primo ascolto, in quelle sue citazioni nere (oltre il soul ci sono aromi funky, blues e gospel), e nel suo modernismo vagamente techno, ma scaldato dalla poesia: “È un disco malinconico – ha dichiarato di recente – ma caldo, con una forte carica emotiva, e pieno di speranza”. La formula creativa non si discosta troppo da quella del fortunatissimo Play, ma non si limita a fotocopiarla, grazie all’innesto di alcune splendide vocalità femminili, con ospiti del calibro di Sinead O’Connor e Angie Stone. Insomma un gran bel disco che il tempo potrebbe fors’anche trasformare in un capolavoro. CD Novità Festivalbar 2002 Emi – Bmg Se si vuol tastare il polso al pop, c’è niente di meglio che buttar l’orecchio ai quattro cd che accompagnano la trentanovesima edizione di questa fiera dell’edonismo canzonettaro-televisivo. Nei due album che li contengono (quello rosso e quello blu, tanto per non azzardare pericolose rivoluzioni cromatiche) ci troverete quanto passa il convento balneare per questa estate: 72 canzoni, per lo più concepite su misura per un consumo effimero e danzereccio, con qualche eccezione di più alte pretese buttata lì giusto per far figura. Un tempo nessuno si sarebbe mai sognato di centrifugare un Guccini con una Orietta Berti, oggi nessuno si fa scrupolo di infilare nello stesso disco il Liga e Paola & Chiara, o Norah Jones e Paulina Rubio. Così va il mondo, e questa non è certo la suapeggiore malattia, tanto più che tra gli uni e gli altri le differenze spesso sono quasi impalpabili. Tricarico Universal Dopo tre chiacchierati e ascoltatissimi singoli, il milanese Francesco Tricarico debutta con un album che lo conferma tra i soggetti più particolari della canzone d’autore nostrana. Dietro le sembianze di esili filastrocche infantili, le sue composizioni celano un minimalismo poetico da non sottovalutare, specie di questi tempi dove impera l’insostenibile pesantezza del Nulla. Qualcuno potrà anche trovare insopportabile la sua levità, ma il giovanotto ha l’indubbio dono di costringerci a pensare, senza per questo somministrarci una predica.

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