Mito e natura presso gli antichi
Di naufragio giustamente si parla, a proposito dell’arte pittorica greca. Andati perduti gli originali di quelli che furono i Michelangelo e i Raffaello dell’epoca, di quell’inestimabile tesoro è pervenuto fino a noi un pallido riflesso per il tramite della pittura romana, eppure sufficiente per fecondare l’arte e la cultura occidentali delle epoche successive, fino ai giorni nostri.
Testimoniano questa continuità, anche agli occhi dei meno introdotti, gli affreschi custoditi nei musei archeologici di Roma e Napoli, contenitori della più cospicua collezione di dipinti romani esistente, e quelli rimasti in situ nelle città vesuviane dissepolte: Pompei, Ercolano, Stabia, Oplonti… Vi ritroviamo l’imitazione della natura, i sistemi decorativi, le leggi prospettiche e della trasparenza dell’aria che trionfano nel Rinascimento, l’illusionismo barocco, i soggetti “umili” delle nature morte assurti ormai a dignità di protagonisti, la vena popolaresca e il ritratto come indagine psicologica nonché modello per le icone bizantine, come pure i tratti impressionistici, a pennellate rapide e nervose, propri dell’epoca moderna.
Dalle vedute paesistiche ai soggetti mitologici o alle scene di vita quotidiana, tutto viene espresso attraverso una tavolozza di ocra, bianchi, neri, gialli, cinabri, rosa, verdi, fra cui spicca il celebre rosso pompeiano, che ci restituisce l’immagine di una antichità classica col gusto raffinato del bello, che amava rivestire le dimore di uomini e dèi con una “pelle” variopinta.
Fa specie che di questi affreschi non si siano conservati se non rarissimi nomi di autentici maestri; l’opera di decorazione era infatti affidata a maestranze rimaste anonime di abilissimi artigiani che, ispirandosi ai miti del passato, erano capaci di riprodurli in infinite varianti per adattarli ai gusti e alle esigenze dei committenti.
Nelle rappresentazioni mitologiche ci troviamo davanti ad un mondo “altro”, chiuso ed enigmatico per noi, eredi di una civiltà le cui radici sono cristiane. Colpiscono, è vero, per la maestria degli effetti coloristici, dei chiaroscuri; ma allo stesso tempo, tranne pochi esempi, lasciano una sensazione di estraneità e di vuoto con quegli occhi inespressivi o sbarrati. Gli stessi cosiddetti paesaggi idillico-sacrali, nei quali gli esseri umani sono ridotti a figurine vivaci sperdute in una natura che fa solo da sfondo, si lasciano ammirare, ma sono schizzi di una umanità senza spessore e senza un destino.
La pittura romana tuttavia non si esaurisce nelle rappresentazioni mitologiche, nella talvolta stanca ripetizione di miti e scene che forse non dicevano granché neanche ai nostri antenati, i quali probabilmente amavano circondarsene a scopo decorativo o di prestigio, più che per la valenza simbolica.
Il meglio di essa lo si trova piuttosto nelle raffinate decorazioni parietali (vedi gli esempi eccelsi della Villa della Farnesina a Roma e di quella di Agrippa Postumo a Boscotrecase), nelle fresche composizioni di frutti e animali, nelle gustose rappresentazioni di vita quotidiana e in alcuni ritratti pompeiani: Paquio Proculo e consorte, ad esempio, che nella loro scoperta insincerità (due popolani che si atteggiano a persone colte) denunciano una debolezza umana che ce li rende più simpatici e accettabili di certe artificiose scene mitologiche.
Una sincerità ancora maggiore la si ritrova nella produzione di ritratti funerari dell’Egitto ellenistico, vero crogiuolo di culture e religioni, e sono i celebri ritratti del Fayum. Qui il faccia a faccia col soggetto rappresentato realisticamente, lo scambio di sguardi, non dà la possibilità di barare. Sono volti indimenticabili, di straordinaria espressività, che ci parlano di una umanità fragile e melanconica, come per la consapevolezza che tutto è transitorio, e dicono un’attesa di eternità: ciò che rende a noi contemporanei questi uomini e queste donne, simili a quanti incrociamo per le vie e sui metrò delle nostre città.
Ammirata, negli ultimi anni, in non poche mostre anche itineranti, la pittura romana nella sua versione “vesuviana” è attualmente oggetto d’un nuovo progetto espositivo approdato – dopo il successo di pubblico riportato al palazzo reale di Milano – al Museo archeologico nazionale di Napoli: Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei (fino al 30 settembre). La mostra, focalizzata sul rapporto tra uomo e ambiente, accanto alla rappresentazione di giardini in straordinari trompe-l’oeil e di paesaggi nilotici, è stata occasione per valorizzare molti reperti di solito non esposti e per riaprire in via definitiva gli storici giardini del palazzo. In quello orientale, in particolare, è stato ricostruito un giardino romano con un ombreggiante pergolato di viti e rose e frammenti scultorei, mentre nel portico prospiciente il giardino occidentale è esposta una parte del Ninfeo marittimo di Massa Lubrense in pasta vitrea e marmi policromi, interamente ornato con motivi floreali e faunistici.
Questa affascinante lettura di natura e paesaggio nella loro dimensione estetico-simbolica, e insieme spazio dove si svolge la vita quotidiana dell’uomo, ha il suo completamento irrinunciabile negli scavi di Pompei, il cui percorso archeologico si è arricchito ultimamente di alcune domus riaperte al pubblico dove sono stati risistemati o ripristinati gli spazi verdi.