Il mito della deterrenza nucleare e l’esempio di Petrov
Abolire le armi nucleari? Sembra impossibile ma è necessario se non vogliamo scomparire dalla faccia della Terra. Una minaccia ben più pesante della pandemia.
Dall’agosto 1945 siamo abituati a convivere con la possibile distruzione del nostro mondo. L’uso degli ordigni nucleari contro due città giapponesi indifese rappresentò il primo atto della cosiddetta “guerra fredda” degli Usa contro il nemico sovietico. Una supremazia destinata, comunque, a durare poco tempo perché l’Urss riuscì a procurarsi la sua bomba atomica, inducendo alcuni teorici a ipotizzare la teoria dell’equilibrio del terrore, della deterrenza, lo stato di paralisi indotto dalla consapevolezza di una “mutua distruzione assicurata” in caso di armi nucleari. Con tanto di spese gigantesche sottratte ai bilanci pubblici.
Oggi la proliferazione di tali micidiali strumenti di morte è così diffusa, almeno 10 Paesi, da essere praticamente fuori controllo e vicina a un punto di rottura. Lo ripetono incessantemente i bollettini della Federazione degli scienziati americani.
L’unica soluzione “ragionevole” appare, pertanto, quella avanzata dal Trattato per l’abolizione delle armi nucleari votato nel luglio 2017 da 122 Paesi nella conferenza dell’Onu e che ha visto l’assenza non solo degli Stati in possesso di tali arsenali, ma anche dei loro alleati, Italia compresa. L’Olanda ha partecipato votando contro.
Il Trattato entrerà in vigore con la ratifica di almeno 50 nazioni e l’obiettivo sembra ormai alla portata di mano intorno al 26 settembre 2020, data che le Nazioni Unite, dal 2013, hanno proclamato “Giornata internazionale per l’eliminazione delle armi nucleari”.
Il 26 settembre rimanda, infatti, a un episodio praticamente sconosciuto: la decisione di Stanislav Petrov, ufficiale sovietico che nel 1983, pur di fronte a quello che sembrava un attacco nucleare statunitense, ragionò con la sua testa e prese la decisione di non rispettare i protocolli che lo obbligavano ad azionare la reazione distruttiva. Praticamente il contrario di ciò che avviene in A prova di errore, un bel film di Sidney Lumet, dove il meccanismo sfugge di mano su entrambe i fronti.
La scelta sensata di Petrov (l’attacco si rivelò un errore del radar) non fu certo lodata dai suoi superiori. Anzi, lo pensionarono precocemente esponendolo ad una precarietà economica che lo accompagnò fino alla morte avvenuta nel 2017. Ricevette anche alcuni premi internazionali, come quello della città tedesca di Dresda, memore della sua distruzione nel 1945 con le bombe al fosforo lanciate dagli Alleati che provocarono 40 mila vittime per combustione.
La memoria di Petrov non è evidentemente diffusa e incentivata, così come quella di Joseph Rotblat, il fisico polacco che abbandonò il progetto “Manhattan” di costruzione dell’arma atomica, lanciata, poi, su Hiroshima e Nagasaki e che, fino alla fine dei suoi giorni, Nobel per la pace 1995, ha invitato gli scienziati a non collaborare all’ideazione e costruzione di strumenti di morte.
All’epoca dei fatti, Rotblat, ebreo, aveva da poco perso la moglie e 6 parenti nei campi di concentramento nazisti. Poteva essere accecato dalla volontà di vendetta, ma orientò la sua vita alla difesa dell’umanità.
Testimonianze scomode che rischiano di mettere in dubbio la presunta sicurezza della possibile distruzione reciproca. Il culto della “salvezza dalla bomba” che, come aveva intuito in quegli anni lo scrittore statunitense Thomas Merton, era destinato a sostituire quello di Dio.
Ma parlare di sicurezza era improprio già all’epoca dello scontro tra due superpotenze. Come fa notare, infatti, Lucio Caracciolo su Limes di aprile 2020, già il presidente Usa Truman, al momento della firma del Patto atlantico nel 1949, avvertì che sarebbe stato eventualmente necessario «usare l’arma atomica contro i nostri alleati dell’Europa occidentale quando fossero occupati».
E di sicurezza della bomba atomica è certo arduo teorizzare oggi in un mondo multipolare, con il diffondersi di una tecnologia che può indurre i diversi soggetti a cercare la possibilità del “primo colpo fatale senza risposta”, usando l’arma atomica.
Si può uscire da questo scenario folle, rimosso nel dibattito pubblico, solo con la distruzione di tali armi di distruzione, come insiste la Santa Sede, primo Paese a ratificare il Trattato Onu del 2017, promotrice costante di un dialogo a livello internazionale sul disarmo nucleare: Dal recente convegno del 2017 in Vaticano, presenti molte delle parti in causa, al videomessaggio del papa del 25 settembre all’Assemblea delle Nazioni Unite. «La deterrenza nucleare, in particolare, crea un ethos della paura basato sulla minaccia dell’annientamento reciproco; in questo modo finisce per avvelenare i rapporti tra i popoli e ostacolare il dialogo».
E un contributo ad abbattere questo “ethos della paura” può arrivare dall’Italia se governo e Parlamento riusciranno a porre tra i temi da affrontare con decisione l’adesione al Trattato per l’abolizione delle armi nucleari. Un passaggio invocato da molte associazioni, dai sindacati e dalla Conferenza dei rettori delle università italiane.
Si tratta di porre la questione all’interno dei Paesi della Nato e di rimuovere le bombe atomiche presenti presso le basi militari Usa di Aviano e Ghedi. Un percorso sicuramente difficile. Come tutti quelli richiesti a chi pretende di far politica per le generazioni avvenire. Nel nome e nel segno di Petrov e di Rotblat.
Qui l’appello di Rete italiana disarmo e pace