Il mistero di Marco Aurelio
Se Lugdunum dice qualcosa a pochi, tutti invece hanno presente Lione, erede della capitale politica e amministrativa delle Gallie e importante centro di scambi economici nell’antichità classica. Cospicue vi sono le testimonianze gallo-romane, paleocristiane, rinascimentali e delle epoche successive: un’affascinante mix che ha meritato al suo centro storico di venire iscritto nel 1998 nel patrimonio Unesco.
Per limitarci però a un solo monumento emblematico, bisogna recarsi ai piedi della collina della Croix-Rousse, proprio dove mescolano le loro acque i due fiumi citati e dove sono visibili i resti dell’anfiteatro detto “delle Tre Gallie”. Inaugurato sotto Tiberio nel 19 d.C., l’edificio che inizialmente poteva contenere 1800 spettatori, sotto Adriano arrivò alla capacità di 20 mila posti: poteva dunque ospitare tutta la popolazione di Lugdunum e dintorni. E proprio nell’ampliata arena, regnante Marco Aurelio (121-180 d.C.), gli storici situano il martirio dei quarantotto cristiani di Lione e di Vienne. Nella lettera che la Chiesa della Gallia inviò poco dopo gli avvenimenti ai confratelli dell’Asia e della Frigia è il racconto dettagliato – quasi un moderno réportage – degli atroci supplizi a cui essi furono sottoposti il 2 giugno del 177, davanti a grande concorso di popolo e autorità.
Dei quarantotto martiri conosciamo soltanto alcuni nomi: Potino, vescovo di Lione, straziato senza alcun riguardo per la sua età (era novantenne), Blandina, Attalo di Pergamo, Alessandro oriundo della Frigia, il neofita Maturo, il diacono di Vienne Santo, Pontico, Alcibiade, Biblide tornata alla fede dopo aver apostasato, Vezio Epagato e molti altri «il cui nome è scritto nel Libro della vita». Fra tutti spicca Blandina, giovane schiava arrestata con la sua padrona, per l’eroico coraggio con cui affrontò i più crudeli tormenti, suscitando lo stupore e l’ammirazione degli stessi pagani: appesa ad un palo a forma di croce, risparmiata dai leoni, subì il supplizio della graticola ardente, fu poi esposta alla furia di un toro e quindi finita con la spada. Fino all’ultimo aveva ripetuto: «Io sono cristiana e tra noi non c’è nessun male».
Se i pochi resti dell’anfiteatro delle Tre Gallie non possono rivaleggiare col meglio conservato e scenografico teatro gallo-romano, hanno però un grande significato per la Chiesa lionese, che qui venera le sue radici. E qui il 4 ottobre 1986, in occasione della sua visita al monumento, Giovanni Paolo II rese omaggio ai martiri di Lione e di Vienne, ricordando allo stesso tempo quelli del nostro tempo: «Sappiamo che ancora oggi sono numerosi, in tutte le parti del mondo, quanti subiscono gli oltraggi, l’esilio e persino la tortura a causa della loro fedeltà alla fede cristiana. Attraverso di loro il Cristo manifesta la sua potenza. I martiri di ieri e di oggi ci sono vicini».
Quelli di Lione costituiscono un capitolo importante de Il mistero di Marco Aurelio, il nuovo libro di Mario Spinelli edito da Marcianum Press. Il “mistero” del titolo non è una scelta editoriale per attirare la curiosità dei lettori, ma corrisponde a un problema che ha intrigato a lungo l’autore: come mai il migliore tra gli imperatori romani, colto, filosofo, magnanimo, sensibile alle amicizie e autore dei Pensieri – un testo dove si trovano riflessioni accettabilissime da un cristiano benché formulate da un pagano –, come mai un tale personaggio permise durante il suo governo lo scatenarsi di persecuzioni che, prima ancora dei martiri lionesi, avevano fatto due vittime illustri: il filosofo Giustino e il vescovo Policarpo di Smirne? Come mai l’autorevole difesa dei cristiani inviata a Marco Aurelio dal primo, uno che l’imperatore filosofo avrebbe dovuto apprezzare, non ebbe alcuna eco? Gli fu mai pervenuta? Quale percezione ebbe l’imperatore della nuova religione? Una cosa è certa: dal fuggevole accenno ai cristiani che troviamo nei Pensieri non risulta stima verso di loro, ma nemmeno quell’odio che avrebbe dovuto giustificare le persecuzioni.
Spinelli, già autore di un documentato libro su un altro imperatore, Giuliano l’Apostata, prima cristiano e in seguito promotore di un ritorno agli antichi dei, ci offre in questo nuovo lavoro una indagine altrettanto puntuale e appassionata, iniziando col tracciare un quadro storico e socio-culturale dell’epoca in cui il figlio adottivo di Antonino Pio resse le redini dell’impero dapprima col fratello Lucio Vero, poi da solo e infine con lo scapestrato figlio Commodo, soffermandosi poi sull’entourage dell’imperatore e su ciò che esso pensava dei cristiani, tratteggiando alcune tra le vittime delle persecuzioni e, infine, un quadro dell’ultimo difficile decennio di vita di Marco Aurelio, funestato da lutti familiari e dalle campagne militari per arginare, ai confini dell’impero, la crescente minaccia dei barbari.
Col consueto linguaggio scorrevole nel trattare una materia padroneggiata grazie alla sua conoscenza dei primi secoli del cristianesimo, l’autore dà vita quasi ad una indagine poliziesca per risolvere il “mistero” di Marco Aurelio. Fino ad arrivare a conclusioni abbastanza convincenti, che non anticipo per lasciarne la scoperta al lettore. Il commento di Spinelli alle sue incursioni nella storia romana: «Su Giuliano ho fatto divulgazione storica, spero seria, e sono giunto a tre conclusioni nuove su di lui: l’ho visto come “pagano di Dio”, cioè spirito religiosissimo, in ricerca di Dio; come inventore della persecuzione moderna, cioè incruenta (fino a un certo punto) e ideologico-politica, e come “Padre della Chiesa” mancato. Marco Aurelio mi ha messo alla prova perché è uno spirito altissimo, uno dei più grandi della romanità e dell’antichità: prima di scrivere su di lui, ti sembra di dover scalare l’Everest (Giuliano è il K2 o il Monte Bianco!). Poi, entrando sempre meglio nel personaggio, ti orienti e fai del tuo meglio, anche per rispetto e venerazione, per ricostruirlo nel modo più veritiero e profondo possibile. Ho cercato di rendere la sua bellezza (mi riferisco ai Pensieri), la sua profondità, attualità, modernità e anche quello che ho chiamato il suo “cristianeggiare”, perché certe sue pagine sembrano davvero scritte da un Padre della Chiesa. Riguardo ai martiri, ho provato gli stessi sentimenti e ho usato gli stessi criteri di quando ho tradotto per Città Nuova Le corone dei martiri di Prudenzio e gli Atti dei martiri africani: ho cercato cioè di rendere, nella traduzione e nel modo come ho inserito questi testi nel flusso narrativo, la loro grandezza morale, l’autenticità della loro fede e, purtroppo, anche la loro attualità, dato l’alto numero di martiri che continuano a cadere in Africa, Asia e anche America Latina».