Il mistero delle connessioni del terrore

Il Paese fatica a riprendere una vita normale. Mentre crescono gli interrogativi su un attentato atipico per il jihadismo, e sulla scarsissima attenzione data dai servizi e dalla polizia agli allarmi provenienti dall’India

Lo Sri Lanka continua ad essere sotto choc, permane il coprifuoco come pure continuano gli arresti che ormai ammontano a diverse decine di sospettati. Ma, allo stesso tempo, sempre più emergono particolari sconcertanti che stanno mettendo a nudo la fragilità di un sistema istituzionale e politico che sembrava essersi rimesso in piedi a 10 anni dalla fine della guerra civile. Sono ripresi anche i posti di blocco così frequenti negli anni del conflitto e che ormai parevano essere un pallido ricordo. In poche parole, l’isola stenta a ritrovare una normalità.

Sri Lanka Blasts

Nel frattempo, sono cominciate a cadere le prime teste. Il presidente Maithripala Sirisena ha infatti annunciato le dimissioni del segretario del ministero della Difesa, Hemasiri Fernando, e del capo della polizia. Con tutta probabilità sono solo le prime, ma non bisogna sottovalutare l’acceso dibattito politico che si sta sviluppando nel Paese e che si sta concentrando sia sulla sicurezza che sui rapporti fra le varie agenzie istituzionali. I servizi di sicurezza indiani avevano, infatti, informato da vario tempo – e anche recentemente – gli organi competenti dell’isola sul pericolo di imminenti attentati. Misteriosamente quelle informazioni non sono state debitamente considerate. Tuttavia, il primo ministro, Ranil Wickremesinghe, ha tenuto a sottolineare che non ci sono evidenze di collusioni fra terroristi e sistemi di sicurezza. In un’intervista televisiva ha ammesso che «l’India ci ha fornito le informazioni, ma poi c’è stato un vuoto nel modo di agire, e le informazioni non sono state trasmesse». Dunque, solo una superficiale e imperdonabile trascuratezza, secondo il premier.

Quello che appare certo è che si è sviluppato un processo di radicalizzazione che, a differenza di altre parti del mondo, non è avvenuto nelle carceri o nelle madrase, ma all’interno di certe famiglie benestanti i cui figli hanno studiato all’estero e, apparentemente, sembravano destinati a un futuro nel business. In effetti, sembra certo che 7 kamikaze e 9 terroristi individuati e ricercati provengano da famiglie note e molto facoltose. «Crediamo che uno degli attentatori suicidi abbia studiato nel Regno Unito e abbia perfezionato gli studi in Australia prima di tornare a vivere in Sri Lanka – ha confermato il ministro della Difesa –. Riteniamo che il gruppo di attentatori suicidi sia formato in maggioranza di individui istruiti, nati in famiglie di classe media e medio-alta. Di conseguenza con una stabilità finanziaria e un’ampia indipendenza».

Fa ancora più scalpore che due dei suicidi di domenica siano figli di un magnate miliardario che controlla una fetta notevole del mercato delle spezie, Mohamed Yusuf Ibrahim. Questi elementi fanno pensare a un altro attentato nel sub-continente indiano, quello avvenuto presso il ristorante Holy Artisan Bakery, a Dacca, capitale del Bangladesh, dove nel 2016 persero la vita 24 persone, fra cui molti stranieri. Ma ci sono anche altri sospettati, come Zahran Hashim, un quarantenne conosciuto per le sue idee estremiste ma mai sospettato di piani di carattere terroristico. Sarebbe stato riconosciuto nelle immagini emerse dalle telecamere delle chiese e degli hotel. Hasin potrebbe essere uno degli elementi di raccordo fra i neo-radicali islamici dell’isola e i gruppi stranieri.

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È chiaro a tutti, comunque, che gli episodi di questi giorni non hanno nulla a che fare con il grosso nodo fra cingalesi e tamil che era stato alla radice della guerra civile. Problema mai religioso, ma piuttosto socio-politico, creatosi, fra l’altro, per via dell’ala oltranzista e radicale dei buddhisti cingalesi. È ancora misteriosa la strategia che ha armato la mano dei neo-terroristi, ovviamente finalizzata a creare tensioni e odio inesistenti fino ad ora. Ma, come fa notare un’interessante analisi apparsa sul sito dell’Ispi, ci vorrà del tempo per ricostruire con certezza la genesi di questi attacchi. Appare, comunque chiaro che, sebbene realizzati da attentatori srilankesi devono essere stati determinati da contatti con il Daesh. È infatti difficile immaginare che il National Thowheeth Jama’ath (Ntj) abbia agito senza alcuna assistenza esterna. Appare verosimile una collaborazione tra Daesh e Ntj, basata non soltanto su una comunanza di valori, ma anche su una convergenza di interessi: l’organizzazione transnazionale offre la disponibilità di spendere il suo “marchio”, noto in tutto il mondo, e presumibilmente qualche tipo di sostegno pratico e riceve in cambio l’opportunità di attribuirsi un catastrofico attacco terroristico in un Paese in cui non vanta una propria rilevante base operativa. In effetti, sottolinea lo studio dell’Ispi, «la rivendicazione della strage dello Sri Lanka restituisce visibilità planetaria all’organizzazione di al-Baghdadi, tanto più in una fase particolarmente delicata della sua traiettoria, con il completo esaurimento della dimensione territoriale del sedicente Califfato in Siria e Iraq a marzo 2019».

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Come hanno fatto notare anche altri osservatori, questi attentati, il numero dei morti, e il tutto nel giorno di Pasqua, sembrano voler confermare la vitalità del gruppo armato anche fuori dalla regione mediorientale e persino in un contesto che non parrebbe essere prevedibile come teatro di episodi di questo tipo. Ovviamente al tragico successo di questa serie di rapporti ancora piuttosto nebulosi ma verosimili ha contribuito in modo decisivo la leggerezza dei sistemi di sicurezza cingalesi. Intanto, cominciano a emergere le tante storie nascoste che, inevitabilmente, caratterizzano questi momenti. Alcuni episodi sono toccanti, sembrano avere dell’incredibile e testimoniano come il Paese fosse ormai tornato allo spirito di convivenza pacifica a cui era abituato da sempre fino allo scoppio della guerra civile. Un episodio che ha commosso molti è quello raccontato da AsiaNews, che riferisce di una bambina e un bambino musulmani morti insieme ai loro amichetti cristiani nell’esplosione avvenuta il 21 aprile nella chiesa di St. Sebastian a Katuwapitiya (Negombo), a pochi chilometri da Colombo. Uno dei vicini di casa afferma che «la bambina era andata a messa con il suo amichetto cattolico e il bambino era andato a messa accompagnato dalla madre, dato che la mamma è cattolica». Si tratta di un episodio significativo del rapporto fra le due comunità che non avevano mai avuto problemi sia pure nella complessa situazione del Paese.

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