Il mistero del petrolio saudita

Grande incertezza sugli autori, sulle dinamiche e sui sottintesi dell’attacco a due poli di raffinazione del petrolio di Riad. La sola cosa certa è che la regione sta entrando in una zona di alta turbolenza  
Saudi Press Agency via AP

I fatti sono noti: sabato 14 settembre 2019, gli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Khurais sono stati attaccati, presumibilmente da droni, che hanno costretto a ridurre drasticamente la produzione petrolifera del regno, con pesanti ripercussioni sui mercati dell’energia.

È vero, i ribelli houti dello Yemen hanno ufficialmente rivendicato l’attacco, ma la dichiarazione suscita una certa dose di perplessità. Sembrerebbe più un atto di opportunismo che altro, perché ci si chiede, tra l’altro, come possano gli houti avere a disposizioni armi così sofisticate di attacco.

Gli iraniani si chiamano fuori, ovviamente, mentre non v’è certezza alcuna sulla provenienza dei droni, che potrebbero sì essere partiti dal territorio yemenita, ma anche da quello iracheno. E ci si chiede come, con tutta la straordinaria tecnologia antimissile di cui è dotata l’Arabia Saudita, la sicurezza dei cieli sauditi possa essere stata gabbata da velivoli capaci di bombardare con precisione millimetrica delle installazioni peraltro iperprotette.

Vi sono poi alcuni elementi che aumentano il dubbio sulla reale origine e le finalità di tali attacchi. C’è innanzitutto l’incognita che plana sulla regione per il risultato della odierna consultazione elettorale israeliana, con la possibile sconfitta di Netanyahu, il quale negli ultimi giorni ha cercato in tutti i modi di far salire la tensione nella regione per considerare la sua permanenza al potere come una garanzia di sicurezza nel caos mediorientale.

Si sa quanto il paradigma del premier uscente sia centrato sulla contrapposizione di Israele all’Iran, quindi sempre alla caccia di nuove motivazioni per poter mettere all’angolo Teheran ed eventualmente attaccare le sue posizioni e i suoi alleati, in particolare gli Hezbollah e, a un secondo livello, gli houti.

C’è poi la questione della guerra dello Yemen, che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (che pur recentemente ad Aden si sono trovati su fronti opposti nella questione dei separatisti del sud) non riescono a vincere, nonostante una schiacciante superiorità di armamenti, non solo per il sostegno degli iraniani agli sciiti houti, ma anche per la composizione degli eserciti saudita ed emiratino, che sono formati quasi integralmente da mercenari, poco motivati a vincere una guerra che porta loro il pane. Senza poi considerare il radicamento delle forze houti e la complessità morfologica e orografica del territorio yemenita.

Terza questione in ballo, la non ancora terminata guerra per la leadership in Arabia Saudita. Recentemente Mbs, Muhammad Bin Salman, principe ereditario del re Salman, suo padre, ha voluto forzare la mano puntando a quotare in borsa la società petrolifera saudita, la Saudi Aramco, contrastato in questo dai vertici della società, che il principe ha provveduto, con i suoi consueti metodi muscolosi, semplicemente a rimuovere, portando un suo fedele fratellastro, Abdulaziz bin Salman a nuovo ministro dell’Energia e il capo del fondo sovrano saudita, Yasir al-Rumayyan, a nuovo chairman di Aramco.

Infine, è da non sottovalutare il riavvicinamento tra Washington e Teheran, dovuto anche ai buoni uffici del presidente francese Macron, che ha invitato al G7 di Biarritz il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, per stabilire un contatto col presidente Trump (si vocifera che l’allontanamento dell’iper-falco Bolton sia dovuto proprio a divergenze di vedute sul dossier iraniano). A Tel Aviv e a Riad tale possibilità, seppur remota, appare un insulto al teorema di base della loro politica mediorientale: il demonio abita a Teheran.

Come si vede le certezze sono poche e non si possono esprimere giudizi definitivi sulla questione. Tanto più che l’aumento del prezzo del petrolio era auspicato dalla stessa Arabia Saudita per rimpinguare le casse quasi vuote del regno, e lo stesso Iran potrebbe trarre vantaggio da una crisi generale del mercato, sperando in una riduzione dell’embargo posto dagli Stati Uniti. È vero che Trump ha dichiarato su Twitter di essere pronto a rispondere all’attacco, ma contro chi e quando e con che mezzi?

 

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