Missione impossibile?
L’ultima, in ordine di tempo, (almeno mentre chiudiamo questo numero), è l’autobomba alla moschea Ali di Najaf che ha fatto 82 morti, tra cui il leader sciita Al-Hakim, e 229 feriti. Ma l’escalation di odio non ha mai conosciuto soste. Appena dieci giorni prima un’esplosione al Canal hotel di Baghdad aveva causato la morte di 24 persone e il ferimento di un altro centinaio tra funzionari e operatoti umanitari. Nel mirino, quella volta, il quartiere dell’Onu. Non ce l’aspettavamo. La nostra conta, finora, riguardava più che altro i marines americani che ogni giorno continuano a morire per il fuoco, nemico o amico che sia, come lo chiamano! Abbiamo via via appreso che quelli del periodo postbellico sono già di più di quelli morti durante il tempo in cui la guerra era dichiarata. Perché questo sembra essere destinato a diventare un altro di quei conflitti lampo che poi, sostanzialmente, non finiscono mai. Ma che venisse preso di mira chi è andato in Iraq per aiutare nella ricostruzione della pace non l’avevamo previsto. E forse non l’avevano previsto neanche loro, dal momento che si tratta di una presenza, quella dell’Onu come quella di tante agenzie umanitarie, governative e no, al servizio della gente, per garantirne i diritti, lo sviluppo, la rinascita, l’uscita da un tunnel lungo tanti anni. Eppure è successo, segno evidente che c’è chi ha la volontà di destabilizzare il paese, di rendere più difficoltoso il cammino della riconciliazione, di impedire che la situazione imbocchi la strada della normalità. Il fatto che in decenni di missioni di pace l’Onu possa contare quasi 1500 operatori sacrificati e che solo quest’anno sia già di 18 il numero di morti tra il personale di varie organizzazioni umanitarie in tutto il mondo, testimonia che si tratta di un compito difficile e rischioso al punto anche di rimetterci la vita. Come è successo appunto a Sergio Vieira de Mello, inviato speciale dell’Onu in Iraq, di cui nei giorni successivi all’attentato sono stati ricordati i meriti, l’impegno, le capacità, soprattutto la determinazione nel credere che la sua era, come affermato da lui stesso, “una missione nel mondo”. Quell’autobomba esplosa al Canal hotel ha fatto tremare però tutta la struttura umanitaria confermando e acuendo le difficoltà operative di tale presenza in territorio iracheno. Qualcuno in questo periodo si è visto costretto a ridurre il proprio personale, altri hanno deciso di restare, tutti comunque avvertono la precarietà di una situazione che diviene sempre più incontrollabile e quindi pericolosa. L’Onu, da parte sua, per proteggere gli operatori umanitari, una settimana dopo l’attentato ha approvato una risoluzione che, oltre ad una serie di misure di sicurezza, prevede che gli attacchi contro il personale umanitario siano considerati “crimini di guerra”. Chi continua a fare le spese di questo caos è, comunque, prima di tutto la popolazione, bisognosa di ogni cosa. Se dalla ricostruzione del paese di cui gli Stati uniti all’indomani dei bombardamenti hanno voluto l'”esclusiva”, sembra essere minacciata persino la campagna elettorale di Bush per le presidenziali dell’anno prossimo, si può immaginare quanto alti ne siano i costi. Che dalla guerra in Iraq saremmo usciti tutti sconfitti ne eravamo convinti. In questi mesi l’abbiamo sperimentato. Ma se ci sono ancora persone pronte a dare la vita per la causa della pace e dei diritti allora la speranza non è morta. I rapporti alla base dell’azione umanitaria A colloquio con Roberto Salvan, direttore di Unicef Italia. Direttore, l’Unicef è tra le agenzie leader dell’assistenza umanitaria in Iraq. Facciamo un po’ il punto della situazione. “Noi conosciamo molto bene il paese perché l’Unicef è presente in Iraq dal 1983. È ovvio che negli ultimi anni, subito dopo il periodo dell’embargo il lavoro è stato più difficile perché dopo il conflitto armato del ’91 il paese era in ginocchio e gli interventi umanitari hanno cercato di mantenere la mortalità infantile a livelli non disastrosi. Con gli ultimi bombardamenti poi, la situazione è precipitata mentre l’attentato del 19 agosto ha accentuato ulteriormente i rischi di intervento, la difficoltà di far tornare alla normalità questo paese”. In che modo un’organizzazione umanitaria riesce ad impiantarsi in un paese e poi a restarci negli anni? “Se un’agenzia è presente in tutte le fasi, di guerra, di pace, di embargo” conosce bene la realtà locale. Basti solo pensare che l’85 per cento dei nostri operatori sono iracheni come pure molti di altre agenzie Onu. Ci sono anche gli internazionali ma avendo ingegneri, medici locali, persone molto preparate, alla fine si diventa esperti delle relazioni, dei rapporti, delle situazioni che si creano nel paese. Così abbiamo continuato a lavorare nelle diverse realtà, relazionandoci con i relativi ministeri. È ovvio che ora diventa più complicato perché si è aggiunto il problema della sicurezza, però se uno arriva in un momento di emergenza e prima non c’è stato, diventa più difficile mentre se ci sei sempre stato è più semplice” per modo di dire”. A proposito di sicurezza. È vero che non è adeguatamente garantita la sicurezza in genere delle agenzie umanitarie? “Bisogna dire che le Nazioni unite non hanno voluto la protezione dell’esercito anglo americano e hanno sempre distribuito gli aiuti senza protezione militare. Anche per la salvaguardia dei palazzi dove erano gli uffici si è preferito impiegare delle società private pur non rifiutando una certa attenzione da parte di inglesi e americani più che altro per la popolazione, cosa che non c’è stata e continua a non esserci. D’altra parte le Nazioni unite non avevano autorizzato l’intervento armato in Iraq, quindi non potevano dopo chiedere agli americani di essere protetti”. Come valuta quest’attentato che tra l’altro ha causato una vittima anche tra gli operatori Unicef? “Come diceva Kofi Annan è la prima volta che le Nazioni unite vengono colpite in un modo così violento in un paese che si sta cercando di aiutare. La gran parte delle vittime erano irachene e alcune internazionali tra cui il nostro Chris Klein- Beekman che era in questo periodo il responsabile dell’ufficio. La situazione di scarsa sicurezza è drammatica a Baghdad ma ora abbiamo visto che lo è anche a Bassora e un po’ in tutto il paese. Si cerca comunque sempre di interloquire con le associazioni locali, ricreando quella rete di intervento esistente durante il periodo dell’embargo, una struttura controllata dal famoso partito Baath, mentre ora, non esistendo più esso ufficialmente, si cerca di coinvolgere le singole municipalità, le organizzazioni irachene attraverso le conoscenze che si avevano anche prima”. Sappiamo che alcune agenzie si sentono minacciate e pensano di ridurre la loro presenza. . . “Sì, la situazione è complicata e quest’attentato è un segnale forte che chi vuole tenere il paese in una situazione di destabilizzazione arriva fino a colpire le Nazioni Unite. C’è chi le accusa di non aver impedito la guerra ma quando c’è qualcuno che la vuole fare per forza. . .” . Secondo quanto affermato da Medici senza frontiere, nel 2003 sono stati uccisi nel mondo 18 operatori umanitari. È un “mestiere” che deve mettere in preventivo anche questa eventualità? “Purtroppo sì, anche noi lo abbiamo riscontrato più volte in questi anni quando si interviene in un’emergenza di questo genere. Quando un paese esce da un conflitto o durante il conflitto stesso gli operatori possono rimetterci la vita. Nella fase in cui gli operatori internazionali dell’Unicef sono andati via perché obbligati, hanno continuato ad intervenire quelli iracheni che però ad un certo punto sono stati costretti dalle autorità locali a non attivarsi più perché potevano come minimo venire incarcerati. I rischi per la propria vita, per la propria incolumità, per la propria famiglia ci sono tutti”. E in questo contesto cosa possono fare, che ruolo possono avere le varie agenzie umanitarie, governative e no? “Il nostro ruolo è quello di far crescere la società civile a livello locale non solo in una situazione di emergenza come in Iraq ma in tutti i paesi dove le Nazioni unite, le agenzie umanitarie, le ong lavorano, perché poi possano fare da soli. Questo è l’obiettivo massimo. Come Unicef ci stiamo impegnando a far ripartire le scuole perché molti bambini hanno perso un anno scolastico. Quindi ristampare i libri di testo, rimettere a posto le scuole, far arrivare le attrezzature, far ripartire un minimo di formazione per gli insegnanti, un lavoro che coinvolge gli uomini, le donne, gli insegnanti, le famiglie, le singole comunità locali e questo cerchiamo di farlo anche in altri campi oltre che in quello dell’istruzione. Il comitato italiano dell’Unicef ad esempio finanzierà degli interventi di alcune ong italiane che hanno un accordo di cooperazione con l’Unicef internazionale presente nel posto. Proprio queste lavorano a livello più basso possibile perché la popolazione possa in qualche modo fare da sola dopo. Gli aiuti umanitari che sono arrivati dagli inglesi e dagli americani sono stati sicuramente utili però sono serviti per rispondere alla prima emergenza, ora bisogna passare alla seconda fase. Certo quando ci si imbatte negli attentati tutto si complica. Magari bisognerà spendere più soldi per garantirci la sicurezza con gruppi armati che proteggano la distribuzione degli aiuti perché sparano contro tutto e contro tutti, come hanno fatto con la Croce Rossa ad esempio. Quelli che lo fanno sanno bene che qualsiasi attacco destabilizza la situazione, e questo è il loro obiettivo”.