Missione e gestione forestale sostenibile in Madagascar
La dottoressa Valentina Falcioni, esperta in scienze ambientali e forestali, membro del gruppo culturale per l’ecologia EcoOne, ci racconta la sua esperienza di studio e volontariato in Madagascar. Si occupa adesso di agricoltura di precisione all’Università della Tuscia.
Come è nata la decisione di trasferirti in Madagascar?
L’occasione è arrivata per caso: mi serviva per un progetto di ricerca per la tesi universitaria. Ho fatto una formazione missionaria per poi essere valutata idonea a partire, oltre che prepararmi a livello scientifico. È stata un’esperienza bellissima, avevo 22 anni e mezzo però ero pronta a iniziare questa avventura, con tutto l’entusiasmo che la gioventù porta con sé, che fa superare le difficoltà e le paure di ogni genere. L’ho vissuta proprio così, senza crearmi aspettative, ma con cuore libero, accogliendo e imparando quello che potevo.
Il rapporto che ho avuto con i bambini per sensibilizzarli all’educazione ambientale è stato molto significativo, così come il lavoro per la pianificazione forestale. C’era un rapporto di parità con i tecnici locali e il desiderio di collaborare insieme nella comunità. È stato un lavoro fruttuoso e di scambio reciproco, anche se penso che ad insegnarmi molto siano state le persone che ho potuto incontrare quotidianamente.
Non è stata una vacanza per me, non ho visitato le città, non ho visto l’oceano. Era una scelta di impegno personale, missionario, oltre che di lavoro. La Capitale Antananarivo è situata a più di 1200 metri d’altitudine nel mezzo dell’altopiano centrale dell’Isola, il mio villaggio era a poca distanza in linea d’aria; tuttavia, i tempi di percorrenza sono molto lunghi per le condizioni dei mezzi di trasporto locali sulle caratteristiche strade terrose malgasce. Ogni viaggio un’avventura in un Paese in cui le persone credono ancora nell’aiuto reciproco e affrontano insieme le sfide quotidiane che la vita presenta loro.
Com’è stato vivere la dimensione sociale?
È differente, anche nei rapporti personali si deve rallentare. Il loro motto “mora mora” – piano piano – lo vivono quotidianamente. Si soffermano sulle cose. E tu, bianco vazah – straniero – sei obbligato a prendere atto e rallentare. Con la scelta di vita missionaria, sono riuscita a essere me stessa nella libertà e nella semplicità. Bisognava mantenere uno stile di vita molto semplice, avevo delle regole da rispettare per integrarmi quanto possibile e non mancare di rispetto alle persone del luogo. Ad esempio, se fossero serviti indumenti si sarebbe comprato qualcosa di molto semplice al mercato come tutte le persone del posto. Si viveva con molto poco, l’essenziale.
Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
L’impotenza di non poter cambiare alcune cose. È chiaro che chi nasce in Madagascar ha possibilità differenti da quelle che ho potuto avere io in Italia e in Europa, non si può scegliere dove si nasce e bisogna imparare a convivere con un contesto a volte non semplice. Sentirmi prossima a quelle persone mi ha cambiato la vita, è stata un’esperienza molto bella però anche delicata. Ad esempio, io stavo in una casa di cemento, il recinto era di legno e non avevo le guardie. Invece, c’erano strutture di tanti bianchi e occidentali, che lavoravano in diversi villaggi del Madagascar, interamente di cemento, comprese di recinzioni e di guardia armata.
Ricordo ad esempio Antsirabe, un piccolo villaggio a 150 km a sud dalla capitale, in cui questo fenomeno era molto evidente. Mi mettevo nei panni dei locali: per quanto trattamento paritario ci potesse essere, rimaneva spesso quel “muro di cemento” che richiamava ad antiche dinamiche di dominazione straniera e a una differenziazione purtroppo ancora presente.
Io, volendo vivere con una condotta sobria, da missionaria, tenevo sempre i cancelli aperti per poter incontrare le persone locali, con la delicatezza di restare seduti fuori. Era meglio evitare di far entrare le persone in casa, perché avrebbe potuto essere per loro una frustrazione vedere la differenza con le proprie abitazioni di terra e paglia, carbonizzata dall’angolo cottura a carboni che affumicava le pareti, annerendo il soffitto di bastoni e plastiche. Sono cose che mi sono rimaste molto impresse nella mente. Un’altra regola che l’organizzazione umanitaria con cui mi sono formata mi aveva dato era di non dare nulla a persone che non rientrassero in una lista di coloro che l’organizzazione poteva aiutare.
In che modo ti sei formata prima di partire?
È stato importare per me seguire una formazione missionaria alla mondialità che la diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, in collaborazione con altri uffici missionari di altre diocesi dell’Emilia-Romagna, porta avanti da anni. Data la loro pluriennale esperienza missionaria in Paesi in via di sviluppo, mi hanno potuto offrire un’ampia riflessione e tanti consigli e indicazioni utili, talvolta imprescindibili, sui modi quanto più rispettosi del popolo con cui si deve convivere, potendo però essere efficaci negli aiuti che si vogliono portare.
Tutti gli anni, preparano anche le persone che decidono di trascorrere le proprie ferie in missione, ad agosto organizzano dei viaggi di 20-25 giorni. In questo modo permettono di visitare e conoscere più da vicino le realtà nei vari Paesi del mondo in cui hanno i centri di aiuto. Per cui, nel mio villaggio in Madagascar, in accordo con la diocesi, la Caritas e le case della carità gestite dalle suore, è stato possibile organizzare gli aiuti alle famiglie locali, suddividendole per zone del villaggio. Così facendo, ognuno di noi aveva una lista di famiglie a cui dare aiuto economico.
Allora, in alcuni giorni venivano due gruppi di anziani a cui davamo un compenso economico a seguito di un piccolo servizio come ad esempio tagliarci l’erba, romperci pezzetti di legno per la stufa, cose semplici per dare dignità alle persone e al lavoro che erano in grado di fare senza fare differenze. In questo modo potevano comprare da mangiare per i loro figli e nipoti. Per i bambini che magari chiedevano un quaderno o una penna valeva il concetto che o lo si poteva dare a tutti o a nessuno, altrimenti era disparità. Così, si creavano delle occasioni, come il corso di educazione ambientale, per fornire a tutti loro quaderni, matite e colori.
Hai incontrato dei pericoli? Se sì, quali?
Come straniera, bianca, non passavo inosservata. Sapevano dove abitavo, osservavano come vestivo e i soldi che avevo nel borsellino quando andavo al mercato. Il rischio era quello dei furti, per cui avevo sempre pochi soldi con me, mantenevo un basso profilo. Altra attenzione che dovevo avere era di non dormire da sola nella casa dei volontari che mi era stata affidata, a meno che non avessi ospiti. Dovevamo essere almeno tre o quattro poiché comunque la casa era grande, aveva un giardino interno e un secondo piano superiore. Di notte era buio pesto e molto silenzioso. Generalmente non ci sono linee di corrente elettrica, oltre alle strade pubbliche nazionali. Non mi è mai successo nulla, personalmente, ma sono venuta a sapere che poco dopo aver lasciato la casa del villaggio per il mio rientro in Italia entrarono per derubare.
Hai lavorato molto con i bambini. Che tipo di esperienza è stata?
Il rapporto con i bambini era una conquista quotidiana. All’inizio erano molto diffidenti, non si avvicinavano né tantomeno mi parlavano. Non erano tra l’altro abituati al fatto che io, una straniera, bianca, adulta, fossi così disponibile per giocare con loro durante il giorno: è molto strano, per loro, che gli adulti dedichino loro del tempo perché lavorano nei campi tutto il giorno. Ci ho messo due mesi per creare con loro una minima confidenza affinché si avvicinassero al cancello della mia casa e ci riuscissimo a scambiare qualche battuta.
Imparare la lingua malgascia, anche un minimo, era essenziale per ambientarsi prima, perché necessariamente implicava anche capire e conoscere la loro cultura. Per me è stato veramente molto importante. Sguardi profondi, con fare diffidente, pian piano hanno lasciato spazio a dei gran sorrisi. A un certo punto, presa confidenza, ci siamo potuti avvicinare, e questo ha permesso loro di iniziare a toccarmi con un dito come per vedere di quale materiale fossi fatta. La curiosità dei bambini è disarmante ma anche meravigliosa. Io li lasciavo fare: guardate che siamo uguali!
Solo giocando insieme abbiamo potuto sperimentare le stesse emozioni di gioia e divertimento. Alla fine, siamo diventati amici! Abbiamo fatto anche delle passeggiate, dandoci la mano, e loro aiutavano me ad arrampicarmi sulle pietre. Le foto che hanno scattato loro in quei momenti con la mia piccola macchinetta fotografica portatile è un ricordo che custodirò per il resto della vita.
Come si chiamava l’organizzazione con cui sei partita?
L’Ong con cui sono partita è Reggio Terzo Mondo (RTM) con sede a Reggio Emilia. Non è l’unica operativa in Madagascar, anzi, ce ne sono tante altre, si incontrano anche in Italia per organizzare insieme gli aiuti da portare periodicamente nelle varie zone dell’Isola. Tutte queste organizzazioni sono anche riunite nel Focsiv (Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana).
In Italia c’è il Cum (Centro Unitario per la formazione Missionaria), a Verona, un importante centro di accompagnamento alla missione per laici, per famiglie o singoli. Si occupa anche del sostegno al rientro, che è altrettanto importante perché andare in missione può lasciare un segno, il trauma di aver vissuto tante situazioni complesse e poi ritornare ad una realtà occidentale totalmente diversa. Occorre un aiuto specializzato per metabolizzare le diverse fasi di vita vissute.