Missionari tra Vangelo e cultura

Vangelo e cultura: un binomio fondamentale, spesso diventato un'antitesi apparentemente inconciliabile. Il contributo fondamentale dei missionari e delle missionarie.
matteo ricci

Tutto è cominciato ancora una volta, duemila anni fa, sulle colline di Palestina con quel: “Andate e annunciate…”.

Gesù mandò i suoi, i quali si misurarono subito, forse senza nemmeno rendersene conto, con il problema delle culture che li circondavano. Indubbiamente lo Spirito Santo dette loro una mano non indifferente quella volta che “tutti li capirono nelle loro lingue”. Sappiamo però che nei 2000 anni di storia del cristianesimo le cose sono state ben più complesse.

“Ammaestrate le nazioni” (Mt 28, 19), “Andate in tutto il mondo” (Mc 16, 15), “A tutte le genti” (Lc 24, 47), “Fino agli estremi confini della terra” (Atti 1, 8): l’annuncio si presentava come una sfida immane. Si trattava di un incontro fra quella parola pronunciata in Galilea e gli uomini di tutte le culture con lingue, costumi e mentalità di nazioni, non solo differenti l’una dall’altra, ma spesso anche in contrasto.

Fin dagli inizi si sono dovuti fare i conti con le diverse correnti del giudaismo e poi con il diritto e la romanità; trovare nell’ellenismo categorie capaci di far capire il cristianesimo a quel mondo per il quale una religione in più o una religione in meno non faceva poi una gran differenza.

E non era che l’inizio. Sappiamo bene quanto sia stata complessa la storia dell’incontro fra il Vangelo e le culture, storia anche dolorosa, ma senza dubbio avvincente e capace davvero di arrivare agli estremi confini.

Ma non è tutto. Il mandato non era limitato solo agli estremi confini, alla dimensione geografica con il caleidoscopio infinito che già presentava; era “per sempre”, fino alla fine dei tempi. Sono trascorsi due millenni: l’evoluzione storica ha richiesto capacità d’adattamenti repentini a flussi e a processi imprevisti, oggi diventati ormai galoppanti con i ritmi cibernetici sempre più trasversali.

Annunciare la buona novella è stata quindi per secoli, ed ancora lo è, una grossa operazione di mediazione culturale a tutto campo. Dovendo arrivare a tutti, essa è non solo una sfida immane, ma anche un processo costante nel divenire storico.

Vangelo e cultura: un binomio fondamentale, spesso diventato un’antitesi apparentemente inconciliabile. È indubbio che da alcuni decenni su questo binomio si concentri, con coscienza sempre crescente, l’attenzione della Chiesa.

Paolo VI, in particolare, ne ha colto l’importanza vitale, comprendendo che proprio “la rottura fra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre” (EN 20) Il suo invito pressante a promuovere ad ogni costo “una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture” (EN 20) ha un valore profetico ed è al tempo stesso frutto di una lettura acuta dei due millenni di cristianesimo.

Nuove prospettive emergono da quelle che si definiscono teologie contestualizzate e che intendono l’elemento culturale locale come un fattore decisivo nell’annuncio evangelico. Conferenze, seminari e letteratura propongono la lettura critica del passato ed offrono soluzioni che appaiono entusiasmanti. Spesso, però, nel giro di qualche decennio e alla prova dei fatti si rivelano dei sogni costruiti sulla carta.

Oggi tuttavia nessuno pensa, come invece accadde dal termine della Patristica fino alla fine del Medio Evo, che in tutto il mondo Cristo sia stato annunciato. Milioni di persone non hanno mai sentito parlare di Lui. Altrettanti i cui antenati forse l’avevano seguito per secoli, oggi Lo ignorano o al massimo Lo considerano come un protagonista della storia accanto a molti altri. Si tratta di ricominciare da capo in molte parti del pianeta.

Un giovane teologo, J. Ratzinger, con lo scultoreo senso di realismo che ben gli conosciamo scriveva nel 1964: “I quattromila anni di storia biblica della salvezza appaiono solo più come un punto minuscolo nel complesso della storia. E, per il futuro, nella proporzione tra la crescita della chiesa e l’aumento demografico dell’umanità, va calcolato un progressivo ridursi della percentuale della chiesa nel mondo. Il trionfo del numero più grande, che la statistica riserva ancora attualmente al cattolicesimo rispetto alle altre religioni dell’umanità, non avrà più forse vita lunga” (Il nuovo Popolo di Dio, Brescia 1971).

Il discorso dunque non è chiuso, tutt’altro. L’annuncio resta attuale ed è ancora in pieno svolgimento dentro un mondo che si evolve continuamente e nel quale, alle culture dei popoli che reclamano una sempre maggiore identità e riconoscimento, si aggiungono filoni culturali trasversali.

Resta fondamentale quanto diceva Paolo VI negli anni ’70: “Evangelizzare è la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda” (EN 14). Ma evangelizzare oggi significa soprattutto offrire una testimonianza di vita credibile e imitabile ed un impegno di mediazione culturale che nessuno può dimenticare.

Giovanni Paolo II ha spesso rivelato che il “coinvolgimento con le culture è sempre stato parte del pellegrinaggio della Chiesa nella storia, ma ha una speciale urgenza oggi, nella situazione multietnica, multireligiosa e multiculturale.” (EiA 21).

In questo processo i missionari sono da sempre mediatori decisivi ed imprescindibili. Senza dubbio, annuncio e testimonianza sono il loro compito primario, ma essi restano vuoti e non credibili se non sono accompagnati “dall’imparare la lingua…, conoscere le espressioni più significative della cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza. Soltanto con questa conoscenza potranno portare ai popoli in maniera credibile e fruttuosa la conoscenza del mistero nascosto”(RM 53).

Affrontare climi e gusti, apprendere lingue ed entrare in mentalità lontane anni luce da quelli appresi sulle ginocchia materne è un’impresa che va al di là della natura che da parte sua cerca subito di mettere radici nel terreno di casa. I portatori dell’annuncio sono stati spesso proprio coloro che, oltre all’annuncio del Vangelo, hanno contribuito in modo decisivo alla linguistica, all’etnografia e all’antropologia, aprendo canali e collegamenti fra le culture.

I processi di acculturazione e di inculturazione dell’annuncio non sono stati semplici. Restano errori ed orrori storici. Non lo possiamo negare ed il mea culpa di Giovanni Paolo II è un riconoscimento giusto e doveroso. Ma non si può negare che la Chiesa abbia intuito da sempre aspetti che hanno finito per realizzarsi solo dopo secoli.

La sfida continua e, nessuno lo dubita, vedrà il suo ultimo atto, quello definitivo, solo nei cieli nuovi e nelle terre nuove. Oggi però si arricchisce di nuove dimensioni e in particolare di quella della comunione che caratterizza la Chiesa del nuovo millennio.

È proprio la comunione che apre alla dimensione della reciprocità che Giovanni Paolo II ha presentato così bene nella Ecclesia in Asia: “Nel contesto della comunione della Chiesa universale, non posso non invitare la Chiesa in Asia ad inviare missionari, anche se essa stessa ha bisogno di operai nella vigna. Sono lieto di constatare che sono stati recentemente fondati istituti missionari di vita apostolica in diversi Paesi dell’Asia come riconoscimento del carattere missionario della Chiesa e della responsabilità delle Chiese particolari in Asia di annunciare il Vangelo in tutto il mondo” (44).

Ma questo è vero anche per le Chiese dell’Africa e dell’America Latina. Lo scorso anno in due domeniche successive mi sono trovato alla messa domenicale prima a Berlino e poi a Bruxelles: un sacerdote diocesano vietnamita ed un cappuccino congolese come celebranti.

Mi ha colpito il francescano di un paese ex-colonia belga. Pochi fedeli presenti, tutti o quasi fra i settanta e gli ottanta, forse oltre. Non mi sarei meravigliato se uno dei presenti avesse fatto il servizio militare in Congo negli anni ’50, dove avrebbe trovato dei missionari belgi, figli probabilmente della scuola di Lovanio, famosa per la plantatio ecclesiae.

Proprio la Chiesa, frutto di quella plantatio, è ora missionaria nel cuore della Chiesa-madre. Ma ancora più interessante era lo stile del sacerdote africano: la lingua francese non era sufficiente a nascondere atteggiamenti e stile che senza dubbio un vallone non avrebbe avuto.

È l’ondata di ritorno del binomio Vangelo-cultura: ora i missionari vengono da Oriente e dal Sud per ri-evangelizzare le parrocchie in Europa. La mediazione, sia pure in senso contrario, continua: è la reciprocità, frutto della comunione che aggiunge, o può aggiungere, una dimensione nuova alla natura evangelizzatrice della Chiesa.

La Chiesa infatti è missionaria, ma è anche comunione. Oggi non si può essere evangelizzatori senza essere uomini e donne di comunione. Il Vangelo e le culture chiedono mediatori capaci di coniugare entrambe le dimensioni.

 

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