Missionari e antropologi

Cenni storici sul rapporto tra evangelizzazione e antropologia. Momenti di dialogo e occasioni di antagonismo tra due diversi modi di entrare in relazione con le popolazioni di "altre culture".

Nel 1500 B. de las Casas offre una polemica testimonianza sulla colonizzazione spagnola, scrivendo la “Storia apologetica degli Indiani”, in cui difende i nativi dalla distruzione culturale, operata dall’invasione europea. Allo stesso modo in Perù il gesuita G. d’Acosta compilò la “Storia naturale e morale delle Indie”.

Il primo documento dell’etnologia moderna è opera di un missionario, J.-F. Lafitau, che pubblicò “Les moeurs des sauvages ameriquains, comparées aux moeurs des premiers temps” (Parigi 1724), dopo anni di missione tra gli Uroni e gli Irochesi della zona dei Grandi Laghi (Canada-USA): “Io ho visto a malincuore come coloro che nelle loro relazioni si occupano dei selvaggi, dipingerli come persone che non hanno nessun sentimento di religione, nessuna conoscenza del divino, un qualche oggetto cui si renda un culto, come gente che non ha né leggi, né disciplina esteriore, né forma di governo, in una parola come uomini che hanno dell’uomo soltanto la figura. È questo un errore di cui sono responsabili molte persone”.

In quest’opera il gesuita francese paragona gli usi e i costumi di queste popolazioni con le istituzioni dell’antichità classica e preclassica. Si rese conto che per capire il modo di pensare, gli usi, i costumi e le tradizioni dei popoli, la conoscenza delle lingue autoctone era indispensabile. Così prese lezioni da un confratello J. Garnier, vissuto in Canada prima di lui per più di sessant’anni, che conosceva la lingua algonchina, la urone e cinque dialetti irochesi.

Nell’Ottocento

In tutto l’800 per lo studio delle popolazioni locali antropologi famosi, come Tylor e Frazer, si rifanno alle relazioni di viaggio dei missionari. Vengono chiamati “antropologi da tavolino”, perché per elaborare le loro teorie non si spostano sul luogo dove si trova l’oggetto del loro studio, ma si basano su documenti scritti da altri.

Però “il più delle volte coloro che hanno visto per primi queste società inferiori, anche se vi hanno soggiornato a lungo, erano preoccupati di tutto fuorché di fornire una relazione precisa, esatta ed anche quanto più completa possibile delle istituzioni e dei costumi che cadevano sotto la loro osservazione. Essi notavano quanto pareva loro più notevole, più strano, ciò che colpiva maggiormente la loro curiosità, e descrivevano il tutto più o meno felicemente”1.

Sono parole di Levy-Bruhl, un antropologo che sintetizza e critica la presenza dei missionari, i quali invece rimangono a lungo nelle società “primitive”, vi risiedono, le descrivono, ne assimilano lo spirito. Spesso ignorano ogni teoria sociologica, ma in questo modo le loro relazioni assumono maggiore importanza, perché descrivono quello che non capiscono, lasciando aperta la porta per l’interpretazione agli antropologi.

I missionari diventano i primi concorrenti degli antropologi, perché sull’onda dell’espansione coloniale organizzano le stazioni missionarie, vivono “sul campo”, pretendono di convertire gli “indigeni”. Sostenuti dalle loro Congregazioni e Ordini, essi si espandono in ogni angolo del pianeta. Il loro però non è solo un intento dottrinale.

Alcuni infatti guardano con simpatia e interesse scientifico alla cultura e alla società in cui vivono, ne studiano la lingua, i costumi e le tradizioni. Molti di loro sono i primi a fissare la lingua locale per iscritto con grammatiche e vocabolari. Infine conoscono in modo profondo la popolazione locale nella quale vivono, soffrono e sperano.

A volte però il loro racconto è incompleto e inficiato di etnocentrismo, tace su punti essenziali e cruciali per la conoscenza etnografica. Spesso altri autori ritoccano le loro descrizioni con innovazioni e aggiunte redazionali fantasiose a seconda della moda esotica del tempo.

Secondo Radcliffe-Brown, uno dei fondatori dell’antropologia sociale inglese, è di grandissima utilità per il missionario conoscere gli studi relativi alle credenze e alle usanze dei popoli nativi con i quali entra in contatto. In questo modo egli può scoprire il significato e la funzione di riti, credenze, particolari maniere di comportamento, che altrimenti rimarrebbero impenetrabili2.

L’antropologia poteva fornire al missionario quelle cognizioni senza cui era impossibile capire determinati costumi e tradizioni popolari. Una pur modesta conoscenza dell’antropologia li avrebbe salvaguardati da certi grossolani errori commessi nei confronti delle popolazioni locali che erano chiamati a evangelizzare.

Spesso in passato i missionari erano persuasi che i “selvaggi” avessero di Dio qualche rudimento di religione naturale e dovessero invece al diavolo le loro pratiche più condannabili. Questa convinzione li obbligava a promuovere spedizioni punitive contro gli stregoni, ammonticchiando i loro amuleti e bruciandoli sotto gli occhi esterrefatti della popolazione.

A volte la popolazione locale li guardava con sospetto e attribuiva loro la causa di siccità, epidemie, mortalità infantili, arrivando a castigarli e a espellerli dal loro territorio, bruciandone le missioni proprio come se fossero stregoni.

Il compito morale dei missionari etnologi diventava quello di ricondurre i “primitivi”, che non avevano avuto l’opportunità di conoscere la rivelazione, alla piena e definitiva coscienza dell’idea di Dio. Ma tutte queste idee vengono per la maggior parte avversate dagli antropologi.

Grazie all’antropologia divulgativa i missionari si istruiscono, leggono opere di antropologi e ne diventano i discepoli, imparano a osservare con occhi prevenuti la realtà. Spesso infatti frappongono uno schermo alla realtà e molti fatti importanti rimangono loro occultati. L’interpretazione preconcetta non si separa più dagli stessi fatti. Ci si deve così interrogare sul fatto che tra le cause di distruzione e dissolvimento delle culture, gli antropologi individuino anche l’attività missionaria3.

Nel Novecento

Nella prima metà del ‘900 nasce la figura del missionario etnografo, primo testimone chiamato a redigere e promuovere la conoscenza di popoli fuori dei confini europei. Gli antropologi invece sono legati agli ambienti accademici delle università che promuovevano la ricerca attraverso grandi survey (ricognizioni) etnografiche, ma che spesso diventavano strumenti che rafforzavano con le loro conoscenze l’amministrazione coloniale.

È noto che molte potenze coloniali, per suddividere i territori da amministrare, si basarono sugli studi degli antropologi. Per dividere e controllare il territorio si inventavano a tavolino etnie mai esistite. Eppure questi scienziati laici, che non si prefiggevano trasformazioni socio-culturali, come invece facevano i missionari preoccupati dell’evangelizzazione e della promozione umana, pretendevano di attingere all’originalità della cultura.

Gli antropologi lottarono spesso contro il rullo omologante della cultura occidentale che appiattiva e omogeneizzava. Il missionario allora diventava un concorrente su cui prevalere e vantare una certa superiorità scientifica. Al massimo dopo qualche anno, gli antropologi se ne tornavano nelle loro accademie per sfoggiare i nuovi saperi attinti in terra di missione.

Arrivavano come “principianti, senza alcuna esperienza precedente, senza nessuno che vi aiuti, perché il bianco è temporaneamente assente o magari non può e non vuole sprecare il suo tempo per voi”4. Spesso si trovano a chiedere aiuto ai missionari e a stabilirsi nelle loro missioni. Vivendo con loro, l’etnografo capisce che i missionari possono fornire lavori che “superano in plasticità e vivacità la maggior parte dei resoconti puramente scientifici”5.

Davanti alla quantità dei dati che i missionari fornivano dopo una vita spesa nelle missioni, la rivalsa degli etnografi consisteva nel dare un metodo di analisi scientifico, criticando i missionari di rovinare e modificare la cultura locale con la loro dottrina.

Basta ricordare le accuse formulate nei confronti dei missionari da Malinowsky, secondo il quale erano superficiali, etnocentrici, si reputavano superiori e praticavano il culto della loro personalità, mediocri, opportunisti, nazionalisti e superbi, incapaci di comprendere le popolazioni che evangelizzavano: “Non amo la vita con il missionario, in modo particolare perché so che dovrò pagare per ogni cosa. Quest’uomo mi disgusta per la sua superiorità di Bianco… Queste persone distruggono la gioia di vivere degli indigeni; distruggono la loro psicologica raison d’etre. E quello che gli danno in cambio è assai meno di quello che hanno gli indigeni. Essi combattono consistentemente e senza pietà contro tutto quello che è antico e creano nuovi bisogni, sia materiali che morali. Che ciò sia dannoso è evidente”6.

Una delle ultime critiche di Malinowsky riguarda “l’impressione fortemente spiacevole che provocano in me i missionari: i loro lati artificiosi, il culto della superficialità e la loro mediocrità. La loro caratteristica: ‘quella di una società segreta’. Nelle loro preghiere menzionano il Governatore…, pregano Dio che il loro lavoro possa avere successo, che il loro esercito possa essere vittorioso e virtuoso – sempre ‘noi’, ‘per noi’, e per utilitarismo”7.

Con il metodo dell’osservazione partecipante gli antropologi della scuola di Malinowsky osservavano e partecipavano alla cultura altrui, ma non troppo per non perdere il volto scientifico. A volte, scocciati, sbottavano contro i “neri”, rimpiangendo la loro patria e la donna amata che avevano lasciato e che li aspettava. Controllavano le informazioni, organizzavano metodi di indagine, si prefiggevano tecniche di raccolta di dati etnografici scevre di etnocentrismo.

I missionari, invece, seppure privi di conoscenze etnologiche e antropologiche, raccoglievano i dati che venivano poi elaborati e studiati dall’antropologo, il quale si risparmiava le difficoltà, le malattie, i viaggi e si limitava a fornire spiegazioni. Succedeva però che il missionario fosse inesperto e i suoi dati inesatti. Di conseguenza le supposizioni fatte a tavolino dall’antropologo su questi dati erano perciò, ancor più inesatte.

A volte gli studiosi che si recavano sul posto rimanevano molto poco a contatto con le popolazioni locali, sistemandosi dove potevano godere di maggiori comodità e ricevere la visita di persone colte con le quali conversare. A differenza dei missionari i quali per svolgere il loro compito si recavano nei villaggi e vi rimanevano, affrontando mille difficoltà e adattandosi all’ambiente.

Solo più tardi, con la spedizione antropologica nello Stretto di Torres, organizzata da Haddon insieme con professori di Cambridge, e soprattutto con l’avvento di Malinowsky, nasce la convinzione che il lavoro sul campo avrebbe portato nuova energia e nuovi metodi all’antropologia.

 

1 L. Lévy-Bruhl, Psiche e società primitive, New Compton, Roma 1970, p. 54. Altri riferimenti bibliografici: A.R. Radcliffe-Brown, Il metodo nell’antropologia sociale, Officina, Roma 1973; B. Malinowsky, Gli argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Id., Giornale di un antropologo, Armando, Roma 1992.

2 Cf. A.R. Radcliffe-Brown, op. cit., p. 53.

3 Ibid., p. 95.

4 B. Malinowsky, op. cit., p. 13.

5 Ibid., p. 26.

6 Ibid., pp. 20.38.

7 Ibid., p. 194.

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