Misiones Paradiso perduto

L'epopea delle "riduzioni" gesuitiche in America del Sud. Il messaggio che ci giunge da quell'ardito esperimento di inculturazione.
santisima trinidad

Riusciranno quei due angeli affrontati in cima alla volta a sostenere il peso delle dissestate muraglie? Riusciranno. Sarà il caldo atroce che inchioda il pensiero e le membra, ma tutto qui sembra bloccato in una fissità allucinante: anche ciò che si sgretola, che frana.

 

Siamo in visita a Santìsima Trinidad, una delle trenta "riduzioni’ o villaggi fondati – a partire dal XVII secolo – dai gesuiti nella provincia del Paraguay, testimoni di un’"utopia" che ha dato frutti splendidi nell’arco di circa 150 anni. A pochi chilometri da qui, oltre il fiume Paranà e la frontiera con l’argentina, Posadas, dove abbiamo fatto tappa al nostro arrivo sembra al confronto veramente un altro mondo. Tutto stupisce in questo luogo. Intanto, il suo isolamento in mezzo alla rigogliosa selva sub-tropicale, che lo preserva dai grandi flussi turistici. E poi la vastità della piazza, degna più di una città che non di un villaggio di quattro o cinquemila anime, quale doveva essere questo. Intorno ad essa, che era il fulcro dell’attività sociale e religiosa, si dispongono i blocchi di casette destinate alla popolazione guaranì; altre costruzioni erano adibite invece a magazzini, officine, scuole, oppure a sede delle autorità civili, ad abitazioni dei missionari, nonché degli orfani e delle vedove della comunità.

 

Nella loro tappa iniziale, "riduzioni" come questa conobbero una fase più rustica, caratterizzata da semplici capanne; più tardi si costruì con pietra e mattoni, le tegole sostituirono la paglia dei tetti e le stesse forme architettoniche si andarono evolvendo. È quanto si può oggi costatare a Santìsima Trinidad, la cui esistenza fu relativamente lunga: dal 1706 al 1767.

 

Su un lato della piazza dominano imponenti le rovine della chiesa maggiore, che sostituì un’altra più antica. In questa sorta di San Galgano americana, davanti agli ornati che richiamano l’arte barocca europea ma reinterpretata ed arricchita con nuove figurazioni trattate con gusto locale, si rinnova lo stupore: nulla di simile possediamo in Occidente. E quale non doveva essere la magnificenza di templi come questo, capaci di testimoniare Dio con l’eccellenza delle arti e delle cerimonie religiose. Ad esse i guaranì partecipavano liberamente e in un raccoglimento che riempiva di meraviglia i visitatori stranieri.

 

Il nostro itinerario prosegue con la visita di un’altra "riduzione": quella di San Ignacio Mini. Questa volta siamo in territorio argentino, non lontano dalle celebri cascate dell’Iguaçu. Anche qui, casette razionalmente disposte attorno ad un’ampia piazza, dominata da una grande chiesa diroccata. Da un lato c’era il cimitero, dall’altro un primo cortile su cui si affacciavano gli appartamenti dei missionari e le scuole; e quindi un secondo con le officine e i depositi. Come si vede, un impianto urbanistico che si ripeteva con poche varianti in tutte e trenta le "riduzioni" gesuitiche. Un dépliant fornisce le notizie essenziali, ma chi come noi ha visto il film Mission può contare su un più ricco bagaglio di informazioni e di immagini che ora ci tornano alla memoria. Merito forse della boscaglia che qui, contrariamente che in Paraguay, invade le rovine, le abbraccia o le ingloba: è il caso dell’albero "cuore di pietra", detto così per aver inghiottito nel suo tronco uno dei pilastri di un antico porticato.

 

L’effetto è quello di un sito archeologico meno "musealizzato" rispetto a Santisima Trinidad e dove – sempre sulla scorta del film – sembra di potersi imbattere da un momento all’altro in qualcuno dei suoi abitanti. Riesce facile, infatti, immaginare i piccoli guaranì giocare per le vie e le piazze mentre le donne, dopo la siesta, s’intrattenevano al fresco sotto i porticati a chiacchierare e a filare il cotone. Oppure la semplice vita che si svolgeva nelle abitazioni che si erano volute monofamiliari per consolidare la monogamia e superare la promiscuità delle antiche case comuni.

 

Si può inoltre immaginare il lavoro nei campi, fondandosi l’economia delle "riduzioni" principalmente sull’agricoltura, oltre che sull’allevamento del bestiame e sull’artigianale. Oltre alla propria, tutti si incaricavano di coltivare la terra comune o "proprietà di Dio", per provvedere al culto, alla scuola, e a chi era in particolare bisogno. Il prodotto eccedente veniva conservato per casi di necessità. In tal modo veniva stimolato un senso di responsabilità nei riguardi della intera comunità, e non solo del proprio clan o tribù. Era poi attivo il commercio sotto forma di scambio di prodotti: tra i principali figuravano la “yerba mate”, i tessuti di cotone, tabacco, zucchero, cera, miele e cuoio.

 

Altra notevole realizzazione dei gesuiti in queste regioni fu una tipografia: numerose le pubblicazioni, dai dizionari castigliano-guaranì a opere degli stessi indigeni. Anche San Ignacio Mini, come del resto ogni villaggio, possedeva la sua biblioteca; a San Cosme y Damiàn sorse perfino un osservatorio astronomico e non era trascurata neppure l’arte militare, necessaria per difendersi dagli attacchi dei predoni.

 

Tutto questo universo ebbe fine con il decreto di espulsione dei gesuiti dalla Spagna e dai suoi domini e la conseguente fatale decadenza delle loro "riduzioni". Ma anche il poco che è sfuggito alle distruzioni degli uomini e degli elementi testimonia come l’antico problema della convivenza di popoli e culture dissimili si sia risolto qui in un incontro felice e, per ceni versi, mai più raggiunto.

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