Mio figlio, una pistola e Igino Giordani

Se non ricordo male, il catechismo dei miei tempi diceva – più o meno – che il peccato può essere commesso col pensiero, con le parole, con le opere e con le omissioni. Io credo di aver commesso un peccato di pensiero mentre leggevo questo libro, anzi, più peccati di pensiero, mediamente uno ogni pagina, peccati di presunzione, di ambizione, di vanità, di gelosia, di invidia: come sarei felice di morire – pensavo -, sapendo che un giorno uno dei miei figli avrebbe potuto scrivere su di me un così bello, penetrante, amorevole, struggente libro come quello che Sergio Giordani ha scritto su suo padre Igino. Il ritratto straordinario di un uomo straordinario, che conoscevo appena, e che Sergio mi ha fatto scoprire soltanto oggi, a un anno dalla sua scomparsa e a circa trenta da quella del padre amatissimo. Ma anche Sergio credo lo ha scoperto grazie al suo libro che è stato per lui un modo di ripercorrere le vie già note del continente paterno, ma anche di incontrarne nuove, non ancora esplorate e talvolta sorprendenti. Tra quelle note primeggia la dolcezza di Igino, ridente e fuggitiva, la sua angelicità. Ho conosciuto Giordani alla biblioteca della Camera – scrive Giovanni Spadolini, storico e politico di area laica, presidente del Consiglio dei ministri nel 1981 – era un uomo angelico. Conservava di Gobetti un culto profondo e rattenuto. Una volta mi disse: lei non può immaginare quale fosse il fuoco di quegli occhi. Igino aveva pubblicato con Gobetti il libro Rivolta cattolica e così descriveva il suo primo incontro col giovane editore: Mi si presentò come un adolescente con gli occhi di poeta, divagati di filosofia…. Mi pare evidente che ci troviamo in una prospettiva angelicata. Ma non solo, anche molto terrena, perché Igino era un angelo spiritoso. Il suo – scrive Sergio – era un discorrere brillante, spesse volte divertente; non ricordo, perché non l’ha mai pronunciata, una sua frase fatta per colpire, far del male o criticare qualcuno. Dalla sua indulgente dolcezza venata di ironia fui testimone io stesso. Il giorno in cui lo conobbi e l’unica volta che lo vidi. Era il giorno della Befana, in casa di sua figlia Bonizza. L’anno non lo ricordo, forse il ’68 o ’69. Bonizza invitava ogni anno i figli piccoli degli amici e a un certo momento vi appariva travestita da Befana con una gerla piena di regali, e una voce contraffatta. I bambini la riconoscevano immediatamente, ma per non deluderla fingevano di credere che fosse davvero la Befana. Io avevo portato due dei miei quattro figli: Orsetta di tre-quattro anni e Gianlorenzo, detto Bacchi, di sei. La Befana-Bonizza donò a Bacchi un set o kit da sceriffo che comprendeva un cappello a larghe tese, una stella distintiva e un pistolone di plastica a tamburo privo di qualsiasi meccanismo. Felicissimo, Bacchi, fanciullo un po’ surreale, comincia a scorrazzare per il salotto sparando all’impazzata a grandi e piccini, facendo ovviamente Bang! Bang! Bang! con la bocca. A un certo punto si diresse verso un piccolo presepe e io cominciai a tremare. Igino stava accanto al presepe, in piedi. Dov’è Gesù Bambino? – domanda Bacchi -. Eccolo risponde Giordani, indicando il gruppetto della Natività che Bonizza aveva estrosamente collocato un po’ di lato. Bacchi brandì il pistolone e con gli occhi che sprizzavano allegria prese a pistolettate Gesù Bambino: Bang! Bang! Bang!. Dio mio! Avrei voluto sprofondare! Un gesto così blasfemo al cospetto di un grande uomo di fede, quasi un santo, figura carismatica del Movimento dei focolari, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, più famoso in Cina che in Italia, come gli aveva detto una volta un amico cinese… Non osavo guardarlo. Poi mi feci coraggio e lo guardai: sorrideva, accarezzando la testa riccioluta di mio figlio. E disse: Non sparare a Gesù, perché è necessario che viva altri trentatré anni per redimere il mondo. E poi la sua morte sarà assai più dolorosa di quella che vorresti infliggergli tu. Bacchi ascoltava incantato, e io con lui. Sergio descrive il padre come un grande affabulatore familiare, dotato di una pazienza indefettibile. I figli spesso, come è noto, irrompevano nello studio senza chiedere permesso, domandandogli di fare giustizia, di attribuire ragioni e torti all’uno o all’altro, oppure semplice- mente per giocare, per inseguirsi e arrampicarsi come scoiattoli sugli scaffali zeppi di libri che arrivavano al soffitto. E lui ascoltava, replicava, suggeriva, dialogava continuando a lavorare, mantenendo intatta la propria concentrazione. Nella vivace descrizione che ne fa Sergio, questa scena fa venire in mente Johann Sebastian Bach che componeva tranquillo nonostante l’assedio rumoroso dei tanti figli che gli volteggiavano intorno. Lo interpellavano, si arrampicavano sul clavicembalo o gli saltavano in grembo. Ma il grembo di Igino ha un solo ospite, fisso ed esclusivo: Bonizza, la più piccola. E mentre Igino pensa e scrive, Bonizza disegna e chiacchiera. Chiacchiera con una compagna di giochi invisibile, Caterina, una bambina virtuale che il padre ha inventato per lei. Del resto, questo amore immenso per i propri figli bambini – che mi fa sentire molto in sintonia con papà Giordani – circola nelle pagine di un libro, La repubblica dei marmocchi, scritto da Igino Giordani nel 1940, dove i caratteri e i comportamenti dei tre piccoli selvaggi Mario, Sergio, Brando sono raccontati con grande finezza e intuito pedagogico. Sergio ne cita spesso le pagine, soprattutto quelle in cui il padre parla di lui e lo descrive: Ha due occhini sempre gremiti di domande e colmi di meraviglie, osserva tutto e accumula materiale… se lo lasciassimo fare trasformerebbe la casa in un serraglio dove ci sarebbero tutti i cani randagi, tutti i pulcini della strada, in compagnia di lumache, coccodrilli e balene, pecore, formiche… egli si vede in mezzo a loro non come un domatore, ma come un Noè in miniatura dentro l’arca. A tavola si mette un gattino a destra e uno a sinistra e pretende che tengano il tovagliolo al collo… Il visetto si fa pensoso. Pensieri più grandi di lui solcano gli occhi meravigliati, in cui si riflette un temperamento portato sempre più alla contemplazione. Mentre gli altri due scarrozzano sempre di più verso l’azione: lotta, gridi, salti. Gli altri due sono Mario e Brando. Bonizza deve ancora nascere. Mario ha un secondo nome – Montalembert -, che è il cognome di uno storico e politico francese molto apprezzato da Igino. Igino non sembra pago di avere un nome un po’ strambo e vuole, sembra volere egual sorte per i figli. Il vero nome di Brando è Ildebrando, e fa riferimento al monaco Ildebrando di Soana, che poi diverrà papa con il nome di Gregorio VII e sarà il protagonista morale di un romanzo storico – La città murata -, mentre il nome di Bonizza sarà quello dell’eroina di tale dramma politico-religioso, pubblicato dal padre nel 1936, l’anno prima della nascita di lei. Sergio in un primo tempo è contento di portare un nome normale che gli risparmia i probabili sfottò dei compagni di scuola, ma crescendo comincia a soffrire per questa normalità perché il significato del suo nome a differenza di quelli di Montalembert, Ildebrando e Bonizza non incuriosisce nessuno. È singolare che fin adesso io abbia citato di questo libro più cose scritte dal padre dell’autore che non dall’autore.Ma è Sergio che ha impostato il suo libro come un gioco di specchi dove egli parla di sé e degli altri e gli altri parlano di lui, il padre del figlio, il figlio del padre. Le pagine della paterna La repubblica dei marmocchi come contrappunto speculare alla scoperta del padre e alla conoscenza di sé, che procedono di conserva in quelle di Caro papà… Caro papà, chissà se Sergio con questo titolo ha inteso strizzare l’occhio a una canzonetta del tempo di guerra molto in voga: Caro papà, ti scrive la mia mano, mi trema un poco lo capisci tu, son tanti giorni che mi stai lontano… eccetera, eccetera. In quegli anni la vita della famiglia Giordani si era fatta più difficile. Igino era un cattolico fervente, un maestro di pensiero di esemplare coerenza, un antifascista convinto. Il regime lo sorvegliava. Talvolta in momenti di tensione e giri di vite, era costretto a nascondersi in case di amici solidali o in istituti religiosi. Come Benedetto Croce, anche lui disponeva di un questurino che lo sorvegliava, un povero diavolo che piano piano diventò amico di famiglia e qualche giorno prima della Liberazione e della sua conseguente sparizione, fece recapitare ai Giordani un pacchetto contenente quattro uova fresche. Un regalo sontuoso, in quei giorni di fame cagna, forse per farsi perdonare. Concludo queste chiose (che potrebbero durare all’infinito talmente ricca e varia è la quantità degli stimoli che questo libro fornisce), con qualche accenno ai miei contatti di lavoro con Sergio e alle nostre affinità elettive.Non poche. Sergio fu il mio principale collaboratore nella realizzazione di un programma giornalistico televisivo, di taglio ironico (se non proprio canzonatorio) che si chiamava Controfagotto. I suoi pezzi erano esilaranti e vengono ancora ricordati: l’inchiesta sui collettoni, i giovanissimi play-boy dei primi anni Sessanta, famosi per i grandi colletti rigidi, sovradimensionati e torreggianti delle camicie che indossavano; i servizi sulle scuole di ballo a Roma, quello sulle giovani turiste straniere insidiate dai nostri Don Giovanni da strapazzo… pezzi che spesso – per distrazione – venivano attribuiti a me e per i quali ricevevo elogi calorosi, che non avevo il coraggio di respingere per non mortificare e deludere chi me li faceva. Altre affinità riguardavano l’incapacità di televendersi, altre ancora riguardavano i bagagli. Sergio era stupefatto per la capacità che aveva il padre Igino di partire per lunghi viaggi con pochissimo bagaglio: una borsa poco più grande di una cartella normale che conteneva tutto il necessario. Sergio ed io invece, gran vanitosi e megalomani, viaggiavamo con pesantissimi valigioni che contenevano tutto il nostro corredo. Per sollevarle bruscamente Sergio si buscò un’ernia, e la stessa cosa accadde a me. E fummo operati entrambi dallo stesso affermatissimo chirurgo che altri non era che Mario Montalembert Giordani, il fratello maggiore di Sergio. Leggere questo libro è una vera delizia, scritto con maestria, dominato dalla figura di quel grande militante del pensiero cattolico e modello di caritatevolezza che fu Igino Giordani, che scomparve come si è soliti dire in odore di santità e lasciò ai figli questo breve testamento, da leggersi dopo la sua morte: Una sola cosa preziosa voglio lasciarvi: La fede in Cristo. Questo vi lascio, pregandovi di tenerla cara… e venite a trovarmi qualche volta nel cimitero di Rocca di Papa, per pregare per mamma e per me.Grazie!.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons