Minoti Aram e lo Shanti Ashram

Un ricordo di una testimone unica di fratellanza universale, scomparsa la mattina di Natale a Dubai. Una donna che ha combattuto una battaglia infinita contro la precarietà fisica, dando una testimonianza unica assieme alla sua famiglia che gli ideali gandhiani possono essere incarnati ancora oggi nell’era della globalizzazione. Dal blog di Roberto Catalano
Minoti Aram e Shanti Ashram
Vorrei ricordare ancora Minoti Aram, una testimone unica di dialogo e di fratellanza universale. Una donna che ha combattuto una battaglia infinita contro la precarietà fisica, sopravvivendo per anni a diverse malattie e dando una testimonianza unica, assieme al marito, il dr. Aram, e ai figli, Vinu e Ashok, che gli ideali gandhiani possono essere incarnati ancora oggi nell’era della globalizzazione.

 

Nello Shanti Ashram, fondato ventisette anni fa sulle colline non lontano dalla città di Coimbatore, nel Sud India, si è realizzato un vero laboratorio che ha dato vita a progetti sostenibili di microcredito, di assistenza alle donne, di promozione sociale a diversi livelli, di cura a malati di Aids, soprattutto di assistenza a bambini di madri affette dall’HIV. Soprattutto, lo Shanti Ashram è stato ed è scuola di umanità, dove si vive e lavora per la pace fra uomini di religioni, culture, classi sociali diverse.

 

Nella vita ho avuto la fortuna di imbattermi in questa realtà e in questa donna, Minoti, per certi versi davvero unica. Vorrei renderle omaggio pubblicando alcuni stralci di un articolo scritto nel 1999, pochi giorni dopo la mia prima visita allo Shanti Ashram.
 

Per dirla in termini comprensibili, lo Shanti Ashram di Coimbatore, conosciutissimo fra l’altro, è una piccola comune intitolata alla Pace. Il fatto che mi ha sconvolto è che qui di pace non si parla, la pace la si sperimenta: la si tocca con mano direi, tanto è reale e palpabile.

 

Chi sono i protagonisti di questo fenomeno?

Li conosco da tempo e qui sono venuto a far visita a loro. Vinu, giovane dottoressa, è alla stazione ad attendermi e la madre Minoti ci aspetta sulla carrozzella dove da anni è costretta, sul balconcino di casa. La terza persona, il fautore di tutto questo, non c’è, ma se ne sente la presenza. Lo incontro in una gigantografia che campeggia con una ghirlanda tipica del Sud India nel salottino di casa. E poi, quando mi giro in cortile e vedo due piccole anfore attaccate capisco che è anche lì, in quelle ceneri che so contenute lì dentro. Sono appese a un albero dove ci inchiniamo con rispetto. È l’albero del bannyan, proverbiale nella cultura indiana. È sotto uno di questi alberi che Buddha ebbe la sua prima ispirazione, Gandhi vi meditava guardando le acque del Sabarmati scorrergli davanti agli occhi ad Ahmedabad e Tagore lo aveva scelto come scuola.

 

Ma torniamo a lui, a questa persona così presente eppure invisibile ormai ai nostri occhi. Era una persona famosa: membro del Raj Sabha, Senato dell’India, presidente del W.C.R.P. (World conference for religions and peace), ex rettor magnifico del Gandhigram university (una università voluta da gandhiani convinti, sognatori nel cuore dell’India rurale per la gente dei villaggi, che ancor oggi sopravvive e che ha come suo rettore onorario di Diritto il vicepresidente dell’India).

 

Davanti alla sua casa qui a Coimbatore, che mi appare dignitosa ma ben lontana dalle ville da magnati che i politici in India, come in molte altre parti del mondo, si possono permettere, mi avventuro in un incoraggiante complimento: «Vinu, la grandezza di tuo padre si vede dalla semplicità di questa casa!». Vinu mi confida: «Non ci crederai, non è nostra! Papà non voleva che possedessimo nemmeno una casa. Questa è in affitto».

 

La cosa non finisce qui. Vinu continua e mi dice di quando lei e Ashok, bambini, studiavano in una scuola privata nel Nord Est, dove il padre era in missione di pace fra le tribù ribelli del Nagaland che creavano non pochi problemi al governo di Nuova Delhi. «Vivevamo tutti con rs. 300 al mese». Sarebbe come dire con 15 mila lire. E non si pensi che la famiglia Aram fosse in questa situazione durante l’Impero britannico. Assolutamente no, sono fatti accaduti negli anni Settanta, l’altro ieri!

 

Il dr. Aram era non solo un gandhiano, ma anche un innamorato di san Francesco e oltre alla pace aveva la povertà come ideale. Diciamo la povertà, non la miseria. Lo ricordo sempre assai elegante nella sua semplice kurta e pijama khadi, sempre lindo e a posto. Per lui la povertà era veramente non possedere un briciolo più del necessario.

 

Minoti, sua moglie, ha scritto una tesi di master su san Francesco, Vinu, dottoressa, e Ashok, economista, sono tutti indù e mostrano come certi valori non solo non abbiano etichetta, ma siano eterni e affascinino a qualsiasi latitudine e in qualsiasi contesto. In effetti qui non mi viene nemmeno in mente che apparteniamo a religioni diverse: ci si sente uomini, donne, membri della stessa famiglia universale perché figli dello stesso Padre dell’universo.

 

«Quando papà – è ancora Vinoo che continua – terminò il suo mandato volontario nel Nord Est volle trovare un punto dove poterci stabilire. Qui il clima era buono per la mamma che già allora soffriva di una briutta artrite reumatoide che oggi l’ha ormai costretta su una carozzella». Fu così che la famiglia Aram si trasferì a Coimbatore e poco alla volta nacque l’Ashram, questa comune. Anche questo è un monumento vivente non solo alla povertà, ma anche alla pace nel nome della fratellanza universale.

 

Lui tamilian, scuro di carnagione e del Sud, figlio di una casta di piccoli commercianti, scelse di sposare come nelle favole una donna dolcissima, di carnagione color latte del Nord, anzi del Nord Est. Solo un indiano o chi in India ci ha vissuto per decenni può capire cosa questo voglia dire. Se non si hanno ideali che sono immensi non si riescono a superare barriere sociali come quelle che il mondo indiano ti propone. Qui ci si sposa nello stesso Stato, all’interno della casta, in circoli in definitiva piuttosto piccoli e ci sono motivazioni socialmente e psicologicamente validissime.

 

Il dr. Aram è andato controcorrente, ma senza polemica. È rimasto fino alla fine figlio della sua terra e della sua religione, ma ha mostrato come tutto si possa fare in nome della pace: anche prendere moglie di un’altra comunità e formare una famiglia che è punto di incontro per migliaia di persone.

 

Viene il momento della partenza: sono passate solo 24 ore! Pare un’eternità! Mi porto in cuore questo grande uomo, Aram, e questa grande donna, Minoti.

 

Leggi anche Minoti Aram, pioniera di dialogo interreligioso su www.focolare.org

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