Milva, l’addio della pantera
Milva: un carattere non facile e un talento sterminato. Una capacità strabiliante di passare dalle canzonacce dei bassi a quelle della cultura alta, da Brecht a Piazzolla, senza mai disdegnare il pop ruspante alla sanremese. Un’estrosa frullatrice di stili e tuttavia capace di dare ad ogni sua impresa un tratto unico, il suo imprinting.
I suoi finti “duelli” con Mina, la tigre cremonese, riportano all’Italia effervescente e speranzosa dei primi anni Sessanta e contribuirono non poco ad imporla al grande pubblico, anche se lei, Maria Ilva Biolcati, aveva già alle spalle un curriculum notevole, iniziato nelle balere del basso ferrarese per sbarcare a Sanremo nel ’61 con il suo primo successo Il mare nel cassetto. Merito di una voce capace di spaziare con eleganza fra i generi più diversi, ma anche di quel mix di grinta ed avvenenza sensuale che l’avrebbe accompagnata per decenni.
Vennero il teatro e il cinema, programmi televisivi e tournee internazionali. Milva ha cantato in nove lingue e si è esibita nei teatri più famosi del mondo; a tutt’oggi è l’artista con più partecipazioni al Festival di Sanremo (ben 15), ma in bacheca sfoggia onorificenze di gran pregio, sia italiane che francesi e tedesche. Una quarantina di album (l’ultimo nel 2010), altrettanti spettacoli teatrali, dieci film, ventidue programmi televisivi da protagonista. Cifre che dicono di una versatilità d’artista straordinaria, ma anche di una capacità di travalicare le scuole espressive e le mode intersecando il proprio talento con quello di altri giganti, da Strehler a Theodorakis, da Morricone ad Alda Merini fino al fortunato sodalizio con Franco Battiato.
Milva era affamata di palchi più che di successo, di passione più che di denaro, di applausi di stima più che di venerazione. Una donna capace di coniugare come poche altre cultura e spettacolo, semplicemente cantando. Ricordo l’unica volta che l’intervistai, nel bailamme sanremese del ’90: intimorito fin dall’apparire di quella sua chioma fiammeggiante e poi da quegli sguardi sempre a mezza via tra l’altezzoso e l’annoiato. Non fu facile contrappuntare le sue parole e portare a casa il punto. Quell’anno al festival portava Sono felice, una canzone in realtà intrisa di tristezza e malinconia che riascoltata oggi sembra quasi una premonizione. Perché Maria Ilva da tempo era stata costretta da una malattia terribile a lasciare il mondo dello spettacolo per chiudersi con la figlia e la fida assistente nel suo eremo milanese. Il suo ultimo impegno pubblico, un cameo silenzioso in un videoclip collettivo contro la pandemia; l’aveva chiuso vergando su un foglio: «Cari amici, andrà tutto bene, vostra Milva».
Milva, l’operaia e l’aristocratica, la pasionaria e la diva; un po’ Marlene e un po’ Greta Garbo, un po’ Edith Piaf e un po’ sciantosa da café chantant. E tuttavia unica e inimitabile.