Mileto, capitale perduta

Il nuovo parco archeologico sull’altopiano del Poro, in provincia di Vibo Valentia, racconta il fulgido passato e la tragica fine di una delle più illustri città del Meridione

Il 1783 è ricordato in Calabria come l’anno del grande flagello. Un catastrofico terremoto, le cui scosse continuarono per anni, devastarono gran parte della regione radendo al suolo città e villaggi, sconvolgendo la stessa conformazione di montagne e colline, deviando corsi d’acqua con successiva creazione di laghi e paludi. Enorme il numero di vittime: tra i 35 mila e i 60 mila i deceduti subito o in seguito per ferite e malattie. E incalcolabile la perdita delle testimonianze storiche e artistiche di una regione nella quale, lungo i millenni, s’erano avvicendati popoli e culture. Un cataclisma da fine del mondo, ancora oggi oggetto di studio da parte di uomini di cultura e scienziati.

Tra le 183 città completamente distrutte, omonima dell’antica città greca dell’Asia Minore è quella Mileto che, sorta sul sito di una villa rustica di età romana, conobbe il massimo splendore nell’XI secolo con l’affermarsi degli Altavilla di Normandia, diventando residenza prediletta dell’ultimo figlio di Tancredi, il conte di Calabria e primo gran conte di Sicilia Ruggero I. Magnifica per edifici civili e religiosi, la Mileto normanna fu nel Sud Italia culla d’arte e cultura famosa in tutta Europa, nonché prima sede vescovile di rito latino in un Meridione fino ad allora sottoposto all’influenza greca di Bisanzio. Sorgeva sulla dorsale tra due colline circondate da profondi valloni, a controllo di un tratto dell’Annia-Popilia, l’antica via consolare che attraverso l’altopiano del Monte Poro congiungeva Capua a Reggio.

Mentre dai sopravvissuti all’immane catastrofe la nuova Mileto veniva riedificata poco lontano, in una località pianeggiante denominata “Villa del Vescovo”, su ciò che restava dell’antica capitale normanna si distese una coltre di silenzio e di vegetazione spontanea. I soli a spingersi sul solitario altopiano erano i cercatori di materiali per l’edilizia e i viaggiatori ed eruditi di Sette-Ottocento, attratti dalle sparse rovine.

Tra questi ultimi Alexandre Dumas, che così ne parla nel suo Viaggio in Calabria: «La bella chiesa della Trinità a Mileto, una delle città più antiche delle due Calabrie, il 5 febbraio si inabissò all’improvviso in modo tale che si poteva vedere solo la guglia del campanile. Un fatto ancora più inaudito è che tutto quel vasto edificio fu inghiottito dalla terra senza che nessuna delle sue parti sembrasse aver subìto il minimo spostamento».

Dopo un secolare abbandono e col recente affermarsi di una disciplina archeologica interessata in modo specifico alle testimonianze di epoca medievale, Mileto viene strappata all’oblio dalle prime campagne di scavo condotte con metodo scientifico, mentre nel 2011 un progetto finalizzato alla creazione di un parco archeologico promuove lo scavo e il restauro degli edifici di interesse storico, la sistemazione paesaggistica e una serie di altri interventi. Parco che, in attesa dell’affidamento in gestione, è già possibile visitare concordando tempi e modi con l’ufficio tecnico del comune di Mileto.

I primi imponenti ruderi che s’incontrano appartengono al complesso monastico della SS. Trinità, uno dei principali centri benedettini del Medioevo calabrese. Venne fondato nel 1060 da Ruggero I, che qui trovò sepoltura insieme a due delle tre mogli, e divenne così ricco e potente da avere possedimenti in tutto il Meridione. L’edificio ecclesiale era a tre navate concluse da absidi con un transetto. Rimangono in piedi, insieme a parte della facciata romanica, tracce delle pareti e, disseminati sul terreno, frammenti marmorei, basi, capitelli e colonne.

L’abbazia sorge fuori da quello che fu il centro abitato, oggi completamente cancellato dalla forza distruttiva del cataclisma e dalle successive spoliazioni: al suo posto si stendono rigogliose campagne punteggiate qua e là da piccoli casali edificati con materiali di spoglio. Testimoniano i successivi riutilizzi anche alcune colonne romane provenienti dall’antica Hipponion-Valentia e reimpiegate come basi di torchi per l’uva. Compensa la mancanza di resti monumentali, in questa parte desolata del parco eppur suggestiva, il panorama che da qui s’apre sul territorio circostante e verso la piana e il Tirreno. Nel settore meridionale del pianoro un modesto rilievo segnala il luogo dove sorgeva la cittadella, il cui possente muro di cinta è in parte ancora visibile là dove non è coperto dalla vegetazione.

Sulla sommità della collinetta, ai due lati di una piazza, si ergono i ruderi della cattedrale del 1081 in stile romanico dedicata a san Nicola e quelli del vescovado settecentesco, edificato molto probabilmente sui resti del palazzo normanno. Anche qui giacciono al suolo è frammenti di marmi, colonne e capitelli sottratti ai templi, al teatro e agli altri edifici della vicina subcolonia di Locri per essere riutilizzati nelle nuove fabbriche.

Certo è che il sito, appena scalfito dalle indagini moderne, è una potenziale miniera sotto l’aspetto archeologico. Ne sapevano qualcosa gli scavatori abusivi del passato, e i moderni non sono stati da meno!

Molti reperti provenienti dai recenti scavi e da donazioni spontanee di privati sono esposti nella nuova Mileto, presso il piccolo museo-gioiello istituito nel 1997 nel palazzo vescovile. La raccolta comprende sculture, mosaici, monete, lastre tombali, ceramiche, icone, dipinti, argenterie, avori, paramenti sacri, in un arco temporale va dal tardo periodo imperiale all’Ottocento.

Di particolare interesse i frammenti delle vetrate absidali dell’abbazia benedettina, lo splendido Crocifisso eburneo del Seicento attribuito ad Alessandro Algardi e il mutilo sarcofago del II secolo d. C. con scena di amazzonomachia che accolse le spoglie di Eremburga, seconda moglie di Ruggero I. Gli altri frammenti sono invece custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli assieme al sarcofago, anch’esso di epoca classica, utilizzato come sepolcro del gran conte d’Altavilla: trasferiti dalla distrutta Mileto nel 1846 per volontà dei Borbone, entrambi i reperti sono oggi reclamati in Calabria per ri-contestualizzare, riunendole in un unico luogo, queste importanti testimonianze della signoria normanna.

Nell’attesa dell’auspicato “ritorno a casa”, la mostra-evento Rogerius, l’alba del nuovo Regno ripropone dal 18 al 31 marzo, nelle sale del museo miletese, la figura del figlio di Tancredi e l’età più fulgida della sua Mileto.

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