Milano: dove morì don Rodrigo
Non sempre le ricerche storiche riguardanti monumenti o siti più o meno noti delle nostre città risultano appetibili per il lettore comune, vuoi per eccesso di erudizione vuoi a motivo di una penna non proprio scorrevole. Padroneggiare la materia, ed essere al tempo stessi capaci di far rivivere l’epoca e il soggetto di cui si tratta, non è da tutti. Per questo è stata per me una piacevole scoperta leggere Il lazzaretto. Storia di un quartiere di Milano del sacerdote brianzolo Vincenzo Cavenago. Edito da Itaca, è un testo che appassionerà quanti, suggestionati dalla descrizione manzoniana della peste del 1630, desiderino saperne di più di questo complesso considerato a suo tempo una delle meraviglie della città lombarda.
L’autore esordisce – e non poteva essere diversamente – con la descrizione della peste, questo morbo di origine asiatica che solo sul finire del secolo scorso è stato debellato proprio in Asia, e informando sulle sue terribili conseguenze, sui primitivi metodi di cura e sui tentativi di isolarne il bacillo, fa sfilare davanti ai nostri occhi personaggi noti e sconosciuti eroi che, a prezzo della vita, si sono prodigati per alleviare le sofferenze altrui. Scorrendo le diciassette pestilenze che funestarono Milano lungo i secoli, arriviamo all’ultima del 1630, quella appunto narrata dal Manzoni, che a causa della spaventosa disorganizzazione dimostrata dalle autorità sanitarie riuscì di gran lunga più letale rispetto alla precedente del 1576, i cui danni erano stati tutto sommati contenuti grazie alle norme profilattiche adottate e all’illuminato intervento dell’allora cardinale Carlo Borromeo.
Il lazzaretto di cui qui si tratta, costruito tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento fuori porta Orientale (oggi porta Venezia) e intitolato a san Gregorio in quanto sorto in prossimità della chiesa omonima, era il maggiore di Milano, ma non l’unico (strutture del genere, adibite a ricovero per i malati durante le epidemie, sorgevano in corrispondenza delle altre porte della città, ed erano affidate, oltre al clero diocesano, a religiosi come i cappuccini e i frati minori francescani, i camilliani, i carmelitani e gli agostiniani scalzi, i barnabiti e i teatini). Immaginiamo un immenso quadrilatero di 368 metri per 370 che occupava un’area delimitata dalle odierne vie San Gregorio e Lazzaretto, viale Vittorio Veneto e corso Buenos Aires. Circondato tutt’attorno da un fossato riempito d’acqua, che accresceva l’idea di isolamento rispetto alla vicina Milano, aveva il perimetro interno costituito da 504 arcate sulle quali si affacciavano 288 cellette per gli appestati, ciascuna con due finestre, un camino, una latrina e dei pagliericci. La sua suddivisione in quattro parti riservava le prime tre agli infermi, ai risanati e ai sospetti, l’ultima invece ai medici, agli speziali, ai barbieri e ad altri addetti.
Osserva l’autore: «Doveva apparire impressionante, per chi proveniva dalla campagna e s’incamminava verso i bastioni di porta Orientale, la vista di quel singolare edificio, con la lunga sequenza di fumaioli e di finestre. Una visione non certo evocatrice di cose liete: aleggiavano anzi su quel basso caseggiato i fantasmi della peste…».
E Manzoni: «S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; […] e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi».
Al centro del vastissimo campo sorgeva quella che sarebbe divenuta poi l’attuale chiesetta di San Carlo. Così la descrive ancora Manzoni: «La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto nel campo».
C’è un dipinto risalente a quel fatale 1630, un ex voto di uno scampato alla peste. In alto è raffigurata la Madonna con manto aperto sostenuto da due angeli, fra san Sebastiano, san Carlo e san Rocco; in basso a destra è il profilo del committente. La parte inferiore mostra in visione prospettica il lazzaretto dal lato occidentale, con a destra le mura di Milano e a sinistra la chiesa di San Gregorio e il cosiddetto “foppone” per le sepolture. All’interno del recinto si contano 36 tende in aggiunta alle cellette per supplire al sovraffollamento di appestati: le capanne e baracche citate appunto dall’autore dei Promessi sposi.
Oltre a riportare episodi tragici e commoventi dalle cronache dell’epoca, don Cavenago ci fa conoscere lo scombussolamento sociale e morale causato dal morbo, come facevano i medici a visitare gli appestati, le cibarie loro somministrate, gli straordinari atti di eroismo dei religiosi che, al servizio degli ammalati, ne subirono il contagio e condivisero la loro sorte. E ancora, le alterazioni e i danneggiamenti subiti dal lazzaretto quando, dopo l’ultima epidemia, cessò la sua funzione e da «luogo destinato per sé al patire e al morire» (Manzoni) venne adibito ai più svariati usi. Come quando, in seguito alla conquista francese del ducato di Milano, esso fu destinato a scopi militari e per la rassegna di truppe fatta da Napoleone al suo interno il 9 luglio 1797 vennero aperti nuovi passaggi e la stessa chiesa trasformata in “altare della patria” in cui troneggiava la statua della Libertà. La demolizione iniziata nel 1882 e finalizzata alla lottizzazione dell’area pose fine all’inarrestabile degrado di questa struttura che prendeva nome dal Lazzaro della parabola evangelica, dal mendicante divenuto patrono dei lebbrosi, lui che era coperto di piaghe come loro.
Ed oggi? Dell’antico lazzaretto sussistono tuttora, inghiottiti nella moderna espansione edilizia, un modesto troncone conservato come memoria storica e incorporato nell’area di una scuola elementare, e la chiesa riaperta al culto nel 1884 con il titolo di San Carlo (popolarmente San Carlino), chiesa sussidiaria della parrocchia di Santa Francesca Romana, i cui recenti restauri hanno giustificato questa edizione aggiornata del volume.
È vero, si tratta di una piccola storia, limitata alle vicende di un quartiere, quello di porta Venezia. Ma la grande storia non è fatta anche di eventi localizzati, così come una costruzione si innalza col contributo di innumerevoli pietre diverse?