Milano, città interculturale
Attorno al libro di Anna Granata, Sono qui da una vita, si incontrano i nuovi italiani: giovani,preparati e impegnati che vogliono essere cittadini come tutti
Un negozio, nel cuore della città, che si apre sull’esterno grazie a delle vetrine che rendono visibile l’interno a chi passa. Se si chiudono gli occhi per ascoltare soltanto le loro voci, difficilmente si potrebbe pensare che i quattro giovani che hanno preso la parola attorno alla stessa tavola rotonda provengono da paesi stranieri. Il loro italiano è perfetto, perché è qui che sono nati o cresciuti.
Francesco è di origine cinese, ma quando va in Cina i suoi parenti lo chiamano “l’Occidentale”, perché percepiscono che ha uno stile di vita “diverso”; Hatice è di origine curda turca, ha fatto qui tutto il percorso scolastico e ha appena ottenuto, a diciotto anni, la cittadinanza italiana; Akram è di padre sudanese e madre egiziana: qui gli amici lo chiamano per scherzare “il terrorista”, mentre in Egitto è per tutti “il mafioso”; Wejdane, è tunisina, madre di un bambino di due anni, sposata con un italiano e sta crescendo suo figlio tra Islam e Cristianesimo, lingua italiana, francese e araba. Mai interlocutori più appropriati avrebbero potuto presentare, lo scorso 24 maggio, di fronte a un pubblico numeroso e vivace, il libro di Anna Granata, Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni (Carocci, 2011).
È così che, tra testimonianze profonde di vita e aneddoti divertenti, Francesco Wu, impegnato in Associna, Hatice Canci, in Genti di pace-j, e Akram Idries, di Yalla Italia, si raccontano, prendendo spunto dal libro, moderati da Wedjane Mejri, docente al politecnico di Milano e presidente di Pontes dei tunisini per l’Italia. Ad Akram non piace usare la parola “integrazione”, abusata nel linguaggio politico e statale, perché ha già in sé l’idea di un problema piuttosto che di una risorsa, ma preferisce parlare di “interazione”, che mette in comunicazione le persone, incrociando sguardi e percorsi di vita diversi. Ci sono le estenuanti difficoltà burocratiche per ottenere la cittadinanza, il dispiacere di non poter prendere parte attivamente alle elezioni comunali e alla vita pubblica della città, e a volte un sentimento di rifiuto da parte del Paese nel quale sono cresciuti e che amano: eppure il clima che si respira è tutt’altro che disfattista, attorno a questa tavola rotonda interculturale. Il dialogo si apre presto alla sala e, tra commenti entusiasti sul libro della giovane autrice e testimonianze di singoli cittadini o membri di associazioni attive sul territorio quali l’Associazione Arcobaleno e i Giovani musulmani d’Italia, emerge una chiara sfida propositiva: la soluzione non è quella di “emigrare” in un altro Paese (discorso che vale anche per i giovani italiani in cerca di occupazione, abbattuti per le scarse possibilità che vengono loro offerte in patria), ma di costruire qualcosa qui, in Italia, mettendo insieme le energie di tutti.
Prende parola anche l’autrice che, in modo appassionato, parla dei suoi amici delle seconde generazioni come di cittadini del mondo, dalle forti competenze interculturali che danno alla loro esperienza un valore aggiunto, piuttosto che “giovani lacerati tra due mondi”, come spesso vengono etichettati da chi si accosta al fenomeno. Si percepisce il rapporto personale che lega l’autrice ai giovani presenti, rapporto che nasce da un incontro umano che non si ferma ai pregiudizi e agli stereotipi in cui ci ritroviamo spesso ingabbiati, ma che si pone verso l’altro nell’ottica dell’arricchimento reciproco, perché “siamo ugualmente milanesi. Esistono solo modi diversi di essere e di costruirsi”. Una tavola rotonda che non si chiude, ma che si apre invece sulla città, mostrandosi nello spazio di una vetrina, visibile ad ogni passante: metafora perfetta di una Milano che sempre più, tramite l’incontro personale, la testimonianza e l’ascolto vero, ha voglia di aprirsi all’interazione autentica e al suo futuro più promettente.