Migrazioni e società, sentirsi responsabili di tutto

L’ennesima tragedia di migranti avvenuta sulle coste italiane mette in evidenza le falle di un sistema d’accoglienza che va riformato. Eppure nel nostro Paese esistono percorsi esemplari che nascono dalla società civile e costituiscono un modello da seguire a livello istituzionale.  Dialogo con Emilio Rossi, fondatore del Centro Immigrazione Asilo Cooperazione internazionale (Ciac) di Parma
Migrazioni (AP Photo/Giuseppe Pipita, File)

Davanti ai morti in mare sulla spiaggia di Cutro si avverte sempre di più l’esigenza di non poter tollerare più il ripeterso di stragi di esseri umani in fuga da guerre e miseria. Esistono esempi di politiche di accoglienza che indicano una strada possibile nata dall’impegno delle associazioni e degli enti locali. Il Ciac di Parma è la punta d’avanguardia per il nostro Paese.   

Quello che si riporta è un estratto da un dialogo avvenuto una domenica pomeriggio di un insolito caldo novembre nei locali dell’associazione che si trovano al centro di Parma.

Anche qui in una città ordinata ed elegante della ricca Emilia accade di trovare migranti per strada che sembrano non avere un posto dove andare e sostano in piazza della Pace, nell’area vuota creata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oltre al verde all’inglese, i getti di una fontana seguono il perimetro di una chiesa fatta demolire in epoca napoleonica. Lo straniero invasore lo si conosce bene per i danni e le offese che arreca quando arriva con armi e uniformi e vuole imporre un nuovo ordine anche spaziale. Ai francesi ad esempio piacque anche ridurre la bella chiesa di san Francesco del prato in un tetro carcere, chiuso solo nel 1992.

Secondo una certa rappresentazione anche i flussi di migranti che arrivano in Italia sono una sorta di invasione silenziosa destinata a cambiare il volto dei nostri territori segnati da un calo demografico straordinario dei residenti statisticamente sempre più vecchi ma, come sembra, anche per lo più benestanti in questa zona d’Emilia.

Qui, però, un lavoro lo trovano anche i migranti tra l’indotto delle industrie e le filiere agricole e dell’allevamento. La città è ricca di cultura e impegno civile con antiche tradizioni politiche accanto ad un numero considerevole di opere di ordini religiosi.

Archivio Foto Ciac

Un laboratorio vivente dove è nata la realtà di Ciac, Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale, uno dei punti di riferimento in Italia per chi vuole capire qualcosa di quel mondo che i migranti li ha sempre accolti in ragione di uno sguardo che va oltre i confini e avverte l’urgenza di “essere responsabile di tutto”.

Lo si comprende al volo quando si incontra Emilio Rossi che ne è il fondatore. Per capire la sfida dello slogan “porti aperti ai migranti e chiusi alle armi” bisogna partire da queste parti, nella pianura emiliana lontana dall’attracco delle navi, per il legame stretto tra impegno contro la guerra e la necessità di chi fugge da essa con la volontà di non imbracciare un’arma.

Un conflitto devastante e a noi vicino, a ridosso della frontiera orientale, ma rimosso dalla consapevolezza comune come dimostra il fatto che oggi si parla di Ucraina come del ritorno della guerra in Europa dopo 70 anni di pace. Una dimenticanza che non rende onore alla migliore gioventù italiana, a Sergio Lana, Guido Puletti e Fabio Moreni, tre operatori di pace di Brescia uccisi in Bosnia nel maggio 1993.

«In quel periodo – racconta Emilio Rossi – facevo parte di un gruppo di volontariato molto determinato ad agire contro la guerra in Jugoslavia sostenendo i disertori e obiettori di coscienza di tutte le parti in conflitto. Facemmo un progetto con il comune di Parma con l’allora assessore Danilo Amadei. Il Gruppo si chiamava “coordinamento contro la guerra in Jugoslavia” e inizialmente andavamo noi oltre confine a prendere le persone per portarle fuori dal teatro di guerra. Loro cercavano di uscire ma venivano respinte, come avviene oggi in altri contesti».

 E in che modo ci siete riusciti?
Grazie all’assessore che faceva da garante con lettere intestate del comune. Si trattò di un atto coraggioso che potrebbe essere replicato anche oggi. I moduli ci sono ancora. Gli obiettori provenivano dalle diverse parti in causa e, una volta giunti a Parma, convivevano senza problemi, a dimostrazione che la guerra non era dovuta a questioni etniche o religiose come si voleva far credere. In questo modo abbiamo anticipato il modello dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) come sistema pubblico di accoglienza che è stato introdotto, poi, a livello nazionale nel 2001, incentrato sulla collaborazione tra ente locale e associazioni di tutela. Abbiamo iniziato quindi con chi veniva dalla Jugoslavia e poi abbiamo continuato con i curdi.

Siete stati unavanguardia in Italia…
Abbiamo testato un modello che funziona con la centralità dell’ente locale come soggetto pubblico con il quale si collabora, ma che non si vuole sostituire. Eravamo coscienti che necessitasse una conoscenza adeguata della materia e abbiamo perciò promosso, con il centro servizi del volontariato di Parma, dei corsi di formazione per avvocati grazie anche alla collaborazione dell’università. I docenti provenivano dall’Asgi. Corsi che rilasciavano un attestato ed erano molto frequentati.

Con gli avvocati così formati abbiamo aperto degli sportelli immigrazione asilo e cittadinanza rivolti a tutelare i diritti delle persone migranti.

Un servizio ha comunque un costo…
Gli sportelli sono stati sostenuti dalla provincia di Parma, quando ancora era in funzione, con l’apertura del servizio in diversi comuni del territorio, 26 al momento attuale, in grado di svolgere pratiche complesse come il ricongiungimento familiare. Per un certo tempo durante il governo Prodi si è pensato di poter affidare ai comuni il rilascio del permesso di soggiorno grazie ad una conoscenza diretta della situazione di ognuno. Obiettivo che poi non è stato raggiunto come sappiamo.

Archivio Foto Ciac

Ovviamente non potevamo fermarci all’assistenza giuridica perché chi chiede asilo ha bisogno di tutto e se si vuole accogliere davvero bisogna sporcarsi le mani. Abbiamo perciò promosso il progetto “Terra d’asilo” che è tuttora in funzione e ha contribuito a fare del parmense un’area con due centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per governare un processo che non può essere gestito in emergenza.

Si tratta di lavorare sempre meglio, in ragione del rispetto dovuto alle persone che vogliamo accogliere stando attenti, nello stesso tempo, a coinvolgere la cittadinanza perché l’integrazione funziona solo con il coinvolgimento della società per non creare mondi separati

I problemi in questo campo non mancano mai però…
È così perché le strutture non sono sufficienti ad accogliere tutti immediatamente e c’è chi rimane per strada. La tendenza prevalente in questi casi può essere quella di restare indifferenti e far finta di nulla per evitare scocciature e invece il nostro impegno è quello di far rendere tutti coscienti del fatto che esistono persone da accogliere.

Cosa ti ha spinto personalmente a fare questa scelta fin da giovane? Quale motivazione o istanza profonda?
In gioventù ero cattolico, poi ho maturato una convinzione laica, ma non vedo una differenza nella risposta che nasce da una sorta di indignazione davanti all’ingiustizia e dalla necessità interiore di essere solidali con le vittime della guerra.

Nel 1993 la guerra era vicina, nella Jugoslavia in disfacimento, ma esisteva ancora un clima diverso a livello sociale, una solidarietà fisiologica come ha raccontato ad esempio Nanni Moretti nel film “Santiago” a proposito della solidarietà spontanea offerta in Italia ai profughi cileni. Cosa è cambiato da allora?  E perché?
Non si è trattato di una mutazione avvenuta per caso. A me pare che sia accaduto qualcosa che è stato voluto. Ad esempio nella seconda metà degli anni 90 l’articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra era percepito come una legge vincolante senza eccezioni. Tutto è cambiato con il bombardamento della Nato su Belgrado con l’utilizzo delle nostre basi nel 1999. Da quel momento sono stati presi accordi che non passano neanche in Parlamento, figuriamoci tra la gente. È iniziato il ciclo delle guerre definite umanitarie o intraprese per esportare la democrazia basandole su false prove (come nel caso dell’Iraq nel 2003) senza nessuno che abbia chiesto neanche scusa per ciò che è accaduto.  Oggi la guerra rientra nel novero delle possibilità per il nostro Paese senza bisogno che venga deciso in Parlamento o si chieda il consenso dei cittadini perché a prevalere sono i patti internazionali. I media spesso hanno instillato un senso di indifferenza. Sarebbe stato molto diverso se si fossero gestite tante tragedie dei popoli in guerra come sta avvenendo oggi con i rifugiati ucraini.

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