Migrazioni. La paura e la vera integrazione

Serve un lavoro culturale diffuso per cambiare le regole del gioco in una prospettiva di verità e giustizia. Intervista a Chiara Peri del Centro Astalli, sede italiana del Jesuit Refugee Service. Tra le voci di LoppianoLab 2017
migranti

L’altalena delle cifre sugli sbarchi è ripresa. Dopo l’annunciata consistente diminuzione in seguito all’accordo italo-libico, i numeri tornano ad ingrossarsi. Ancora una volta è l’emergenza a farla da padrona sui media, molto meno citata è l’altra sponda, quella di chi l’accoglienza la pratica e ha fatto dell’inclusione sociale prima di tutto una battaglia culturale, «troppo spesso messa all’angolo dalla prepotenza dei media, a beneficio dell’opinione pubblica che spesso non è cosciente del danno che subisce». Lo afferma Chiara Peri, responsabile dell’ufficio progetti e coordinatrice dei programmi di dialogo interreligioso del Centro Astalli di Roma, sede italiana del Jesuit Refugee Service (JRS) che interverrà durante l’evento centrale dell’ottava edizione di LoppianoLab, il 30 settembre prossimo.

Con il 46% degli italiani che, secondo un’indagine europea, si sentirebbe in pericolo e il dietrofront sulla calendarizzazione del Ddl sullo Ius Soli, sembra che “paura” sia la parola chiave di tutto ciò che gira intorno al tema migrazioni. È una psicosi reale? 

Penso che la paura si costruisca e una volta messa in moto purtroppo esiste. Non è nuovo che ci sia una distorsione nella percezione. Occorrerebbe rispondere con un grosso lavoro culturale, mentre si tende a prendere scorciatoie con decreti sulla sicurezza, leggi speciali, come se il problema coincidesse con la sua percezione. Non diciamo che non debba essere presa in considerazione o che non sia un’emergenza sociale, ma per rispondere è necessario un paziente lavoro di ricucitura della fiducia a partire dal basso e di ricostruzione dell’integrazione sociale.

A proposito di azioni che partono dal basso: L’Italia sono anch’io, il movimento #italianisenzacittadinanza, Ero straniero sono alcune delle campagne in cui il Centro Astalli è impegnato. Che margine di influenza politica ha la società civile che si mette in rete?

Penso che talvolta l’opinione pubblica abbia anche troppo peso nelle scelte della politica. Siccome il problema migratorio è cruciale, è anche diventato oggetto di studiata comunicazione ai fini di poterlo manipolare. Tuttavia io sarei ottimista: prendiamo la campagna Ero straniero che è portata avanti da un cartello di promotori che più trasversali non si può. È certamente una battaglia difficile perché abbiamo voluto mettere insieme tutti quelli che si sentono a disagio con questo modo di gestire il fenomeno migratorio e siamo in una stagione in cui si registra una sorta di pigrizia nel vivere pubblicamente la cittadinanza, limitandosi a mettere un like su Facebook. Però è significativo che alla campagna di raccolta firme molti abbiano reagito dicendo che non si può firmare online, ma bisogna “esserci” di persona, pubblicamente.

Una parola sulla filosofia del Centro Astalli: cosa significa per voi accompagnare i rifugiati in un processo di integrazione sociale e civile?

Accompagnare, nel senso di “essere con” è la parola chiave e il nostro metodo. Cerchiamo di vivere insieme le difficoltà, di restituire la voce a chi vive la migrazione sulla propria pelle. Nei progetti di formazione per le scuole i rifugiati sono i maestri; non quelli che ricevono per nostra bontà, ma che insegnano e portano valore. L’ultimo servizio che abbiamo creato si chiama “comunità d’ospitalità” in collaborazione con gli istituti religiosi. Aggiunge un pezzo di accompagnamento in coda ai percorsi istituzionali che non sono sufficienti a dare piena autonomia ai rifugiati. Siamo al terzo anno di attività con 27 comunità religiose ospitanti e qui a Roma sono 130 i rifugiati accolti tra istituti e famiglie.

Che cosa occorre, secondo lei, per “cambiare le regole del gioco” – come ha detto papa Francesco ai rappresentanti dell’Economia di Comunione –, ed eliminare le categorie delle vittime e dei briganti dalla questione migratoria oggi?

Bisogna cambiare prospettiva: dobbiamo educarci a vedere le migrazioni in un contesto globale, analizzando le cause prime: le strutture di peccato, le ingiustizie, l’esercizio del potere che le alimentano. Inoltre, parafrasando il titolo di un film di Andrea Segre, occorre cambiare “l’ordine delle cose”. Quando si dice che l’accoglienza ha i suoi limiti nell’integrazione, prima di toccare l’accoglienza bisogna rafforzare l’integrazione, leggendo tutto in una prospettiva di comune destino umano, di giustizia e verità. Un percorso che è più complesso di una formula riduttiva.

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