Migranti, la lezione del Canada
La Chiesa e le migrazioni: (in)-differenza globale? Questo era il titolo della conferenza a cui ho partecipato a Toronto negli ultimi giorni. Toronto è, probabilmente, uno dei punti della terra dove riescono a convivere etnie, tradizioni, culture, religioni fra le più diverse del mondo nel quale viviamo. Soprattutto convivono esseri umani che appartengono a tutte le categorie di cui sopra.
In questi giorni, soprattutto la sera verso le 21, tornando a casa dal bellissimo quartiere universitario dove si svolgeva il convegno, ho passato i 35 minuti di viaggio in metropolitana a guardare chi mi era accanto. Bambini, giovani, adulti, anziani, poveri e ricchi, i cui volti, modi di vestire, profili, accenti, tradivano le provenienze da ogni parte del mondo. Impossibile indovinarli tutti. Un caleidoscopio di volti e di storie, quasi tutte a lieto fine. Il sogno di questi uomini e donne che vivono oggi a Toronto, o quello dei loro genitori e nonni si è avverato: hanno trovato un luogo dove ricominciare una vita.
Devo confessare che ho respirato una boccata di aria fresca, nauseato com’ero nel nostro “Bel Paese” che ha chiuso porti a chi aiuta profughi che rischiano di affogare, costretto navi cariche di migranti a restare nel Mediterraneo per giorni con sole cocente e pioggia, con politici che hanno passato il tempo ad offendere altri Paesi per non aver fatto quello che persino gli animali fanno quando vedono un loro simile in pericolo: aiutare.
Anni fa, proprio qui a Toronto, mi aveva colpito – e ne avevo fatto un blog – la scritta che avevo trovato in giro per la città canadese: The World Needs more Canada. Il mondo ha bisogno di più Canada. In effetti, la nostra Italia, e forse potremmo chiarire ancora meglio, la nostra Europa, avrebbero bisogno di una iniezione di capacità di accoglienza e di integrazione che il Canada ha dimostrato di avere negli ultimi 170 anni, da quando migliaia di migranti irlandesi affamati, per via della mancanza di raccolti di patate nell’isola a nord ovest dell’Inghilterra, si riversarono sui lidi e nelle terre canadesi.
Non fu semplice accoglierli, ma i canadesi lo fecero anche se molti di quei poveretti si erano ammalati di tifo e febbri varie. Migliaia furono falcidiati da queste malattie e furono aiutati da chi era già in Canada. Il primo vescovo cattolico di Toronto morì a 43 anni aiutando quella gente. Tutto questo è rimasto nel DNA di questo popolo.
Mi ha colpito la differenza con i nostri italiani (dico italiani a ragion veduta pensando al successo dei nostri politici da quando hanno iniziato a comportarsi così) ed i loro, nostri, leaders politici (se di politica si può ancora parlare!). Beninteso sono abbastanza navigato per capire che non tutto luccica a Toronto. Basta allontanarsi da alcune zone e passare in altre per vedere che la vera integrazione è ancora lontana. Me lo confermavano anche alcuni amici indiani che non hanno nascosto di sentire una sottile (e spesso nemmeno troppo sottile!) vena razzista o, comunque, di discriminazione. Eppure, nonostante tutto ho avuto l’impressione di essere atterrato su altro pianeta in quanto a civiltà e rispetto.
Tra l’altro, il motivo della visita era una conferenza proprio sulle migrazioni, grande nodo sociale. Ho ascoltato e parlato con relatori provenienti da tutto il mondo. Ho ascoltato storie personali e di comunità che lavorano con migranti, ho discusso con alcuni provenienti dall’Africa, altri dall’Asia e dal Sud America. E mi sono reso conto di quanto sia davvero minimo il problema migratorio dell’Europa e del nostro Paese, che pure resta e resterà, sia che gli italiani e i loro politici più accesi lo capiscano o meno, esposto come nessun altro alle ondate di migranti.
L’Italia non sarebbe quella che è se, nel corso dei secoli, non ci fossero state ondate migratorie, ben più grandi di quelle attuali. I problemi immani delle migrazioni sono altrove, in nazioni come Libano e Giordania dove i migranti o i loro discendenti raggiungono quasi la metà della popolazione, in alcuni Paesi dell’Africa, dell’Asia e anche del Sud e del Centro-America.
Ciò di cui molti di noi italiani vanno fieri in questi giorni – “finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di rimandare al mittente gli indesiderati o costringe altri ad aprire le porte” – rischia di isolarci dal mondo, di renderci antipatici agli altri, di creare tensioni internazionali (e ce ne sono già state), di esporci molto di più al pericolo di attentati anche per il rancore che coverà in molti e nelle loro comunità. E, alla fine, i migranti arriveranno lo stesso perché il processo è globale e si tratta di leggere i ‘segni dei nostri tempi’ per capire come gestirlo per un futuro che porti ad un mondo davvero nuovo che non sarà mai quello che vorremmo difendere, perché non esiste più.
E, poi, se fossimo davvero coerenti, dovremmo avere il coraggio di espellere tutti: ucraine e moldave, albanesi e filippine o ecuadoriane e peruviane che assistono i nostri anziani, africani sottopagati e sfruttati dalle mafie per raccogliere la frutta che mangiamo, indiani e pakistani che sempre più si occupano delle mandrie dei nostri bovini, bengalesi e indiani che spesso troviamo ai distributori di benzina. Pensiamo un po’ come sarebbe la nostra vita senza tutte queste persone.
Forse, tutto sommato, ci manca l’umiltà di dire che anche noi abbiamo bisogno degli altri, non sono solo gli altri cercano di attraccare alle nostre coste in cerca di una speranza per il futuro. Ebbene, andiamo avanti di questo passo e ci accorgeremo, quelli di noi che ci saranno, che avremo un pugno di sabbia in mano ed allora non solo dovremo aprire le porte, ma le spalancheremo. Ma i processi non saranno più per integrazione progressiva ma avverranno senza dubbio in modo ben più drammatico. Sarà tardi, troppo tardi per renderci conto che la storia da tempo aveva preso un’altra strada e noi l’abbiamo persa!