Migranti: la Corte europea condanna l’Italia
1. Una recentissima decisione della Corte europea dei Diritti dell’uomo, datata 30 marzo 2023 (caso J.A. e altri c. Italia, ricorso n.21329/18), ha condannato l’Italia per diverse violazioni della Convenzione, legate al trattenimento di quattro migranti tunisini nell’hotspot posto nell’isola di Lampedusa e al loro respingimento collettivo verso la Tunisia, fatti avvenuti nell’ottobre 2017. Segnatamente, la Corte europea ha ravvisato nel caso di specie sia la violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti), sia la violazione dell’art. 5 paragrafi 1, 2 e 4 (privazione arbitraria della libertà personale), sia infine la violazione dell’art. 4 del Protocollo n.4 della Convenzione (divieto di espulsione collettiva di stranieri).
I fatti che hanno dato origine al procedimento sono riassunti molto chiaramente nella pronuncia dei giudici di Strasburgo (presidente il giudice sloveno Marko Bosnjak, tra i giudici anche l’italiano Raffaele Sabato): i ricorrenti, di nazionalità tunisina, partivano il 15 ottobre 2017 dalle coste tunisine a bordo di un’imbarcazione per raggiungerne un’altra più grande che trasportava circa un centinaio di persone, ma dopo poche ore di navigazione, a seguito di un’emergenza nelle condizioni del mare, venivano salvati da una nave italiana che li portava a Lampedusa il 16 ottobre 2017. Qui i ricorrenti venivano alloggiati nell’hotspot per le procedure di identificazione e vi rimanevano per dieci giorni, durante i quali essi allegavano che non potevano lasciare il centro e non potevano interagire con le autorità, nonché che si trovavano in condizioni materiali inumane e degradanti. Quindi, nella mattinata del 26 ottobre 2017 i ricorrenti ed altri quaranta individui venivano portati all’aeroporto dell’isola di Lampedusa, dove goi veniva richiesto di firmare dei documenti di cui non comprendevano il contenuto, che solo in seguito scoprivano essere ordini di respingimento emessi dalla Questura di Agrigento: dopo di che venivano trasportati in aereo all’aeroporto di Palermo e da qui forzatamente riportati in Tunisia, nello stesso giorno del 26 ottobre 2017 (cfr. paragrafi da 2 a 11 della decisione, The facts).
2. Venendo agli aspetti giuridici della vicenda, la decisione dei giudici di Strasburgo pare altrettanto chiara anche nella parte in diritto: infatti, sulla scorta dei riferimenti normativi interni italiani e internazionali (disciplina dell’Unione europea, del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite), alla luce di precedenti decisioni della stessa Corte, il Collegio esamina nel dettaglio le doglianze dei ricorrenti e ritiene sussistenti le violazioni degli articoli della Convenzione europea in precedenza richiamati. Quanto all’art. 3 sul divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti, la Corte rileva che «molte fonti nazionali ed internazionali hanno attestato le critiche condizioni materiali nell’hotspot di Lampedusa durante il periodo dei fatti di cui al presente caso» (par. 61) e che «il Governo ha mancato di produrre sufficienti elementi in supporto del suo punto di vista che le condizioni individuali dei ricorrenti di permanenza nel centro potessero ritenersi accettabili» (par. 64).
Quindi, considerato che, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte europea e del carattere “assoluto” dell’art. 3, «le difficoltà derivanti dal crescente flusso di migranti e richiedenti asilo, in particolare per gli Stati che formano i confini esterni dell’Unione Europea, non esonerano gli Stati membri del Consiglio d’Europa dai loro obblighi derivanti da questa disposizione» (par. 65), la conclusione è che nel caso di specie, in cui i ricorrenti sono rimasti nell’hotspot per dieci giorni, essi sono stati sottoposti a un trattamento inumano e degradante, con conseguente violazione dell’art. 3 Cedu.
Passando all’art. 5 della Convenzione, secondo il quale ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza e nessuno può essere privato della libertà salvo che nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge (comma 1), ogni persona arrestata deve essere informata al più presto e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico (comma 2), infine ogni persona privata della libertà ha diritto di presentare ricorso ad un tribunale, affinchè decida in breve termine sulla legalità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale (comma 4), la Corte osserva in primo luogo che la regola generale posta dall’art. 5 par. 1 è che ognuno ha diritto alla libertà, ma lo stesso articolo alla lettera f) «prevede un’eccezione a tale regola generale, permettendo agli Stati di controllare la libertà degli stranieri in un contesto di immigrazione» (par. 79 della decisione).
Nel caso in esame, però, «le autorità italiane non hanno sostenuto, né è stato altrimenti dimostrato, che l’ingresso dei migranti era stato rifiutato, che un ordine di rimpatrio era stato emesso, o che un’azione relativa alla deportazione era stata iniziata prima del 26 ottobre 2017» (par. 84). Compito della Corte, dunque, è quello di «stabilire se la restrizione della libertà dei ricorrenti entro il significato dell’art. 5 lett. f si adeguasse al requisito della legalità e in particolare se fosse basata sulle regole sostanziali e procedurali della legge nazionale» ( par. 85 ). Al riguardo va posta attenzione alla natura e alla funzione degli hotspot, rispetto ai quali la Commissione europea nel maggio 2015 stabiliva delle linee-guida da applicare negli Stati membri dell’Unione e metteva in campo il c.d. approccio hotspot: quindi, il ministro degli Interni italiano nel settembre 2015 identificava quattro aree portuali in cui collocare questi centri, tra cui Lampedusa (par. 86 e 87). La Corte europea esamina la legislazione italiana riguardante gli hotspot, costituita dall’art.10-ter D.lgs. 286/1998, come modificato dal Decreto-legge 13/2017, e afferma che «non ha trovato alcun riferimento nel diritto italiano citato dal Governo ad aspetti sostanziali e procedurali della privazione della libertà che possono essere attuati nel rispetto dei migranti interessati negli hotspot, né il Governo ha presentato una qualche fonte legale secondo la quale l’hotspot di Lampedusa poteva essere classificato come un Cie» (par. 89 e 91 della decisione).
D’altro canto, risulta documentalmente che «l’hotspot di Lampedusa è un’area chiusa con sbarre, cancelli e recinti di metallo che i migranti non sono autorizzati a lasciare, perfino una volta che sono stati identificati, così sottoponendoli ad una privazione di libertà che non è regolata dalla legge o soggetta a scrutinio giudiziario» (par. 92). Dunque, nel caso in esame la limitazione della libertà di movimento dei ricorrenti equivaleva ad una privazione della loro libertà personale soggetta all’art. 5 Cedu, considerato altresì che la durata massima della loro permanenza nel centro non era definita da alcuna legge o regolamento (par. 94). Ne consegue che «al tempo dei fatti (2017) la struttura regolatoria italiana non permetteva l’utilizzazione dell’hotspot di Lampedusa come centro di detenzione per stranieri» (par. 95).
La logica conclusione di queste considerazioni è che, tenuto conto che i ricorrenti sono stati collocati nell’hotspot di Lampedusa dalle autorità italiane e vi sono rimasti per dieci giorni «senza una chiara ed accessibile base legale e nell’assenza di una ragionevole misura che disciplinasse il loro trattenimento», essi sono stati arbitrariamente privati della loro libertà, in violazione dell’art. 5 par. 1 della Convenzione, senza che le autorità li informassero dei motivi della loro privazione di libertà né della possibilità di portare il loro caso di detenzione de facto dinanzi a un Tribunale, in violazione altresì dei par. 2 e 4 dell’art. 5 (v. par. 97, 98 e 99 della decisione).
La terza violazione convenzionale ritenuta sussistente dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato italiano riguarda l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione (adottato a Strasburgo il 16.9.1963 ed eseguito in Italia con D.P.R. 217/1982), che sancisce il divieto di espulsioni collettive di stranieri. A questo proposito la Corte richiama e conferma il suo consolidato orientamento in materia di espulsione collettiva, da intendersi come «ogni misura che costringe gli stranieri come gruppo a lasciare un paese, tranne quando tale misura sia presa sulla base di un ragionevole ed oggettivo esame del particolare caso di ogni singolo straniero del gruppo» (par. 106). Nel caso di specie i ricorrenti sostenevano che nessun colloquio era stato svolto con le autorità prima che sottoscrivessero gli ordini di respingimento, dei quali non ricevevano copia, e tale assunto dei ricorrenti non veniva contestato dal Governo italiano (par. 107); inoltre, la Corte riconosce che il testo degli ordini relativi ai primi due ricorrenti è «standardizzato» e non evidenzia alcun esame delle situazioni personali degli stessi e che per il terzo e quarto ricorrente non sono state presentate alla Corte copie delle decisioni (par. 108). Quindi, i ricorrenti venivano rimpatriati con la forza nello stesso giorno in cui gli ordini di respingimento venivano forniti, i loro polsi venivano legati con fasce di velcro durante i trasferimenti agli aeroporti e i telefoni cellulari venivano loro tolti fino all’arrivo in Tunisia (par. 109).
I giudici di Strasburgo richiamano anche la pronuncia della Corte costituzionale italiana dell’8 novembre 2017, n.275, secondo cui i «respingimenti differiti» attuati con l’uso della forza richiedono un intervento legislativo da quando quella misura ha un impatto sulla libertà personale del singolo, entro il significato dell’art.13 Cost., e sono da regolare in conformità al comma 3 di quella disposizione (par. 114). La conclusione è che gli ordini di respingimento e di rimpatrio emessi nel caso dei ricorrenti non avevano un’appropriata considerazione per le loro situazioni individuali e, pertanto, costituivano una «espulsione collettiva di stranieri», nel significato dell’art. 4 del Protocollo n.4 della Convenzione, con conseguente violazione anche di questa disposizione (par. 115 e 116).
In applicazione dell’art. 41 Cedu, infine, la Corte riconosce ai ricorrenti per le accertate violazioni della Convenzione e del Protocollo una somma di euro 8.500 ciascuno, a titolo di danno non patrimoniale; oltre al rimborso delle spese processuali, liquidato in euro 4.000.
3. Dispiace un po’ riconoscere, come cittadini italiani, che la condanna pronunciata dalla Corte europea nei confronti dell’Italia, con la decisione che qui si commenta, è ragionevole e correttamente motivata e, inoltre, tutt’altro che imprevedibile, poiché vi erano state precedenti condanne dello Stato italiano pronunciate in casi analoghi dalla stessa Corte (caso Khlaifia e altri c. Italia del dicembre 2016, caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 2012, entrambi richiamati dalla pronuncia in esame).
Certamente la materia dell’immigrazione è complessa e ha visto nel corso degli ultimi anni, per l’Europa e in particolare per l’Italia vista la sua posizione nel Mediterraneo, fenomeni di accelerazione e di aggravamento che hanno messo a dura prova l’impianto normativo italiano ed europeo. Tuttavia, le problematiche evidenziate anche con questa decisione della Corte edu sono note da tempo e non pare che gli organi legislativi nazionali ed europei si siano attrezzati in modo adeguato per risolverle e per eliminare le criticità ancora esistenti. Un punto fermo è il seguente: qualsiasi disciplina normativa non può prescindere dal rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, consacrati negli articoli della Convenzione europea che vincola tutti gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa (attualmente in numero di 46). È bene che anche il Parlamento e il Governo italiano non dimentichino mai, nell’affrontare la complessa materia dell’immigrazione, questo punto fermo ed irrinunciabile.
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