Micheline Mwendike: la guerra ha fallito
Alla fine di luglio 2022, in diverse città dell’est del Congo Rdc, si sono svolte numerose manifestazioni, alcune sanguinose, per chiedere il ritiro dei Caschi Blu delle Nazioni Unite.
Nella regione, a fine luglio, sono state uccise 36 persone, tra cui tre peacekeepers della Monusco, e ci sono stati centinaia di feriti, anche gravi. I manifestanti hanno accusato le forze di pace di inefficacia nella lotta contro il centinaio di gruppi armati responsabili del caos in cui vivono le province orientali del Paese.
Al di là delle analisi e delle decisioni politiche e diplomatiche, come interpretare i sentimenti dei comuni cittadini congolesi? Ne ho parlato con Micheline Mwendike, congolese nata e cresciuta a Goma, nel Nord Kivu, attivista per la democrazia e i diritti umani, promotrice del movimento cittadino apartitico e non-violento Lucha (Lutte pour le Changement).
È stata condotta un’indagine tra aprile e maggio 2022 dal Groupe d’étude sur le Congo (Gec). L’indagine afferma fra il resto che «i congolesi hanno messo la situazione della sicurezza del Paese in cima alle loro preoccupazioni». Cosa pensa della situazione nella parte orientale del Paese?
La prima cosa da capire è che ci troviamo su un terreno molto complicato, dove la guerra e la pace hanno da tempo stretto una certa amicizia. E oserei dire che se non stiamo attenti i valori saranno tutti consumati: democrazia, azione umanitaria e solidarietà. Perché la guerra consuma tutto.
D’altra parte, penso anche che la guerra abbia già fallito, perché uccide tutto. Uccide anche le rivendicazioni – perché i movimenti che avevano richieste giuste usano mezzi sbagliati, le armi, la violenza. E la guerra uccide tutti i protagonisti e gli attori, a tutti i livelli.
Ecco perché non ne usciremo mai, finché non sarà chiaro che la violenza non può risolvere nulla. Ne ho scritto nel mio libro La guerra ha fallito (La guerre a échoué): volevo riflettere sulla mia storia, sulla mia esperienza di 10 anni come attivista. Volevo chiedermi perché e come sono diventata un’attivista. Perché non ho voluto unirmi ad un gruppo armato, per esempio?
Poi ho capito che in realtà ogni generazione ha la sua lotta per una vita migliore: non posso condurre una lotta contro la schiavitù o per l’indipendenza. La mia generazione ha altre battaglie da portare avanti per un Congo migliore. E, data la situazione di guerra nell’Est del nostro Paese, dove sono nata e cresciuta, ho capito che a livello politico c’è una gerarchia troppo pesante, rigida. Dobbiamo lottare affinché gli attori politici del nostro Paese capiscano che devono imparare ad accettare nuove idee, proposte innovative per migliorare la vita dei cittadini.
Dobbiamo lottare contro il rifiuto delle Ong e di altri attori sociali di “ripensare” l’azione di solidarietà e l’impegno umanitario, che in tutti questi anni non ha raggiunto i suoi obiettivi nonostante i tanti mezzi impiegati.
Dobbiamo lottare affinché la comunità internazionale capisca che forse non abbiamo bisogno di “aiuti” esterni, ma di partenariato e sostegno alle nostre azioni, per trovare soluzioni alle numerose sfide.
Dobbiamo lottare contro ogni tipo di violenza: quella governativa e della polizia, quella dei gruppi armati, anche quella delle manifestazioni, ecc.
Dobbiamo avere il coraggio di guardare oltre ciò che conosciamo per aprirci al futuro: ripensare una strategia per la sicurezza e una pace sostenibili, ripensare l’azione umanitaria e la solidarietà.
Le richieste delle ribellioni sono buone, ma nel momento in cui si usa la violenza, tutto è perduto.
Presente nel Congo Rdc dal 1999, la missione Onu (Monusco) è accusata di inefficienza nella lotta contro molte decine di gruppi armati. Per molti, tuttavia, si tratta di inefficenza dello Stato congolese.
La Monusco è entrata nel sistema di guerra e di violenza del nostro Paese e ne è diventata un attore importante; impiega molte persone, ha una logistica enorme, si è trasformata nel corso degli anni. Nel marzo 2014, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la costituzione di una nuova “brigata d’intervento” per intraprendere azioni militari offensive contro i gruppi armati presenti in Congo, particolarmente nell’Est. L’integrazione di una tale forza militare offensiva in una missione Onu ha rappresentato un cambiamento senza precedenti nel tradizionale modello di mantenimento della pace delle Nazioni Unite.
Le accuse di traffico di minerali, violenze sessuali e abusi contro i diritti umani da parte di alcuni contingenti Monusco e l’estrema arroganza di alcuni contingenti occidentali presenti nella Missione Onu, sia nel linguaggio che nei fatti, sono documentate.
Nei fatti, è un atteggiamento di arroganza che fa decidere al “donatore d’aiuto” quale sia il problema da risolvere, invece di venire ad ascoltare dalla gente il vero bisogno. Il popolo sta denunciando questi atteggiamenti.
Le manifestazioni contro i Caschi Blu, che non sono le prime, sono un modo per la popolazione dell’Est della Repubblica Democratica del Congo di rivendicare la paternità dello Stato congolese. La popolazione ha parlato chiaramente, dicendo: «Ne abbiamo abbastanza di padrini, vogliamo un padre».
Questo è un segnale forte! La popolazione non ha paura del caos che segnerà l’era post-Monusco – il caos che molti osservatori prevedono, un certo timore che dopo il ritiro della Missione Onu ci sia un vuoto in termini di sicurezza.
Potrebbe sembrare un paradosso, ma credo che il popolo voglia affermare la propria maturità dicendo: “Non vogliamo un padrino, vogliamo un padre. Se le cose andranno male dopo la partenza del padrino, non ci interessa”.
Torniamo al titolo del suo libro La guerre a échoué: perché la guerra ha fallito?
Il nostro Paese stenta a decollare. Le continue guerre sono una realtà che abbiamo già assunto, accettato, stiamo cercando modi e mezzi per uscirne. Da un punto di vista istituzionale, il nostro Stato è malato.
Credo fermamente che la guerra abbia fallito perché la catena di violenze, ingiustizie, violazioni e ricatti, tra l’indifferenza e il cinismo di ogni tipo, non sono riusciti a trasformare il popolo in persone assetate di sangue.
Nonostante le sfide del tribalismo e di altre forme di discriminazione, la popolazione è quasi l’unico soggetto a prendersi a cuore l’umanità del popolo. È impressionante vedere quanto le persone si aiutino a vicenda, ed è difficile capire come mai le persone di un popolo che ha sofferto così tanto possano fare tanti sforzi per aiutarsi a vicenda, per il bene comune.
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