Michele Placido un uomo sincero
Capelli candidi, piglio giovanile, franco e diretto. Michele Placido, 59 anni, è così. Semplice e forte, come la sua terra, la Puglia. Sta ultimando Romanzo criminale, film sulla banda della Magliana, in uscita a metà ottobre. Una vicenda dura di quattro ragazzi… È un film sull’Italia tragica degli anni Ottanta-Novanta, attraverso la peggio gioventù, ma con storie di grandi emozioni. Certo, ci sono quattro personaggi negativi, ma è proprio tramite la negazione delle cose belle che possiamo capire cosa perdiamo quando si sceglie la strada sbagliata: capita al personaggio interpretato da Kim Rossi Stuart: da bambino sceglie di diventare un gangster, ma durante l’arco della vita capisce cosa ha buttato via, la bellezza della vita e soprattutto il dono dell’amore. Ma il film è pure una metafora dell’Italia, un paese civile che per migliorare sé stesso deve sacrificare qualcosa di bello e di buono, come Falcone e Borsellino che coscientemente hanno dato la vita. Quanti di noi sarebbero capaci di farlo? La vita non è una passeggiata, talvolta abbiamo bisogno di eroi che ci fanno capire come comportarci. C’è anche qui, come in altri tuoi lavori o interpretazioni – da Pummarò, a Un eroe borghese, da Lamerica, a Mery per sempre… – un forte impegno civile. Si direbbe una dimensione etica. Io vengo da una famiglia cattolica piccolo-borghese che, da un lato, aveva buoni princìpi, dall’altro con un atteggiamento un po’ classista verso i contadini, i cafoni. Quando sono venuto a Roma, ho fatto per due anni il poliziotto. C’erano siciliani e friulani, all’epoca, che si arruolavano per mandare lo stipendio a casa. È stato in questo ambiente che, accanto alla dimensione familiare e religiosa che mi portavo dietro, è nata quella politica: il senso di giustizia, di combattere per chi ha meno degli altri, stare dalla parte di chi soffre; guardare con simpatia questi aspetti piuttosto che quello più volgare della vita, cioè la ricchezza, l’atteggiamento di superiorità, di sicurezza. La mia formazione naviga attraverso queste esperienze Che, mi pare, si identificano o si intersecano in certo modo in altrettanti tuoi filoni interpretativi. Film come Poliziotti, la Piovra col Commissario Cattani, Padre Pio… È vero. Probabilmente ho riversato le esperienze giovanili anche nei personaggi che sono venuti in seguito. Mario Monicelli raccontava: Mi sono trovato davanti un ragazzo – ero io – che aveva fatto il questurino, mi andava bene per Romanzo popolare. Lui mi ha visto molto naïf, semplice, senza un atteggiamento da attore – frequentavo intanto l’Accademia d’arte drammatica -, ed è rimasto colpito. Fondamentale è stato anche l’aspetto religioso. A nove anni ho avuto una folgorazione, volevo farmi missionario e sono entrato in seminario dai Redentoristi – con cui mantengo buoni rapporti – fino ai tredici. Io, ora, mi considero un cattolico molto laico, che ha dei punti di vista critici verso la chiesa, ma sono affascinato da personaggi come Wojtyla o papa Ratzinger, che credo sorprenderà chi come me si aspetta delle aperture nuove da parte della chiesa. Tu sei diventato molto popolare anche grazie a Padre Pio. Per me lui è un uomo che è stato fatto santo dal popolo, col passaparola, come Wojtyla quando hanno detto santo subito: una di quelle persone straordinarie che fanno per gli altri cose che non riusciamo a immaginare. Alla Puglia dell’epoca, in un posto infelice, ha dato la speranza, che era un ospedale. Quando mi sono avvicinato al suo personaggio, ho dovuto ricorrere ai ricordi della mia infanzia, di mia nonna, di quando – a quattro, cinque anni – sono andato a San Giovanni Rotondo con mio padre: da lontano vedevo quel fraticello, non ne coglievo allora la grandezza. Ma quando l’ho interpretato, ho capito cosa voleva dire esser stato sulle spalle di mio padre, sentire la sua emozione, lui che mi protendeva verso quella figura straordinaria. Prima, però, dopo quattro giorni di lavorazione, ero stato in crisi, non riuscivo a entrare nella sua santità, mi sarebbe stato impossibile con una metodologia da attore. Parlando con Rocco Papaleo, che interpretava il frate che accudisce padre Pio, gli chiesi se ogni tanto lui si inginocchiasse. E lui: ma che vuol dire? Non ti ricordi – rispondevo – che da piccoli ci inginocchiavamo a dire le preghiere? Perché ora che abbiamo cinquant’anni e pensiamo di essere chissà chi, non proviamo a inginocchiarci: siamo niente di fronte alla meraviglia di esistere, alla grandezza dell’universo, per ringraziare qualcuno che si chiama Dio o Allah di avercelo dato. Lui non se la sentiva. Io sono entrato in camera mia: prima di dormire, m’inginocchio, non provo nessuna emozione: il mio cuore era inaridito. Mentre stavo così, improvvisamente sento crescere in me una commozione, era la figura di mio padre che mi diceva da bambino: dài, Michelino, inginocchiamoci, diciamo le preghiere… Pensando a quel momento, mi sono commosso, ho pianto, ho creato in me un’emozione tale che il giorno dopo, arrivando sul set, il regista Giulio Base mi dice: oggi hai una luce diversa negli occhi. Certo, avevo recuperato la purezza necessaria per entrare nel personaggio, e da quel momento non recitavo più; ero in qualche modo padre Pio, nel senso più alto bello e puro della parola. Da quello che dici, ed anche dai tuoi film, si direbbe che sei in una ricerca continua della verità. Questo dovrebbe far parte del nostro lavoro! La funzione dell’attore è quella di una ricerca: è una sorta di sacerdozio con la missione di interpretare l’animo umano negli aspetti più profondi della miseria e della grandezza. Bisogna dunque trovarla quella verità: occorre esser sé stessi, senza metodologie artificiose: allora ci si può avvicinare alla miseria e alla grandezza dei personaggi. Cre- do questo valga per qualsiasi artista, per poter toccare le corde più recondite dell’essere umano, avendo coscienza del tragitto della vita, che ha come compimento definitivo la morte. Gli attori dovrebbero avere questa sensibilità, questa serietà, non si può essere solo dei buffoni. L’attore deve essere sé stesso. E tu come ti definiresti, allora? Io cerco di portare tutto ciò che è parte della mia professionalità anche nel privato e tutto quello che il privato mi dà in gioie e dolori lo trasmetto ai vari personaggi. Sono uno che cerca una sorta di verità mistica in quello che fa: questo mi riempie, mi fa star bene. Anche se interpreto un personaggio negativo, mi sforzo di comprendere quali meccanismi lo portino a tale negatività, perché, chissà, potrebbe succedere anche a me. Penso a Gesù che perdona tutti, perché sa che l’uomo è capace di grandi gesti positivi ma pure negativi. Questo sentimento mi accompagna sempre nell’arco della giornata. Io cerco di esser partecipe delle miserie e delle bellezze dell’uomo. Hai girato la storia di due poeti, Dino Campana e Sibilla Aleramo, in Un viaggio chiamato amore. Quanto contano la poesia e l’amore nella tua vita? La poesia è stata la fonte del mio essere attore. A scuola da bambino la maestra diceva: Michele, sei il più discolo, però hai una bella voce. Mi faceva leggere Pascoli, che è stato il primo amore, davanti ai compagni, e io ne ero gratificato. Da qui è nata una passione che continua, perché faccio ancora recite di poesia. Riguardo all’amore, è un sentimento molto difficile da vivere e da raccontare. Ci sono infatti delle persone che dopo una vita negano che l’amore possa realmente esistere. Certo, dopo la fiamma del primo incontro e l’attrazione sessuale e sentimentale, subentra l’usura del tempo. Però posso dire che, personalmente, le crisi avute nei rapporti sentimentali son dovute quasi sempre ad una mancanza di rispetto e di gratitudine: perché se esse esistono, credo si possa avere una storia abbastanza unica ed eterna. Se no, dopo le storie si ripetono tutte quante. Oggi, si vive in un tempo di usa e getta, e vedo che in tanti giovani non c’è profondità, sentimento, nel senso più bello della parola. Michele, hai lavorato col fior fiore di registi: Monicelli, Bellocchio, Taviani, Rosi, Wertmüller, Strehler. Insomma, hai avuto tanto dalla vita. Cosa sogni ancora? Penso che potrei già chiudere gli occhi senza rimproverare nulla a chi mi ha dato tanto. Alla vita, a chi misteriosamente governa le nostre sorti. Io devo solo esser grato, non chiedere di più. Oggi cerco di guardare i più giovani che mi stanno accanto, dargli la possibilità di assecondare le loro doti artistiche e umane, dargli consigli nel senso più retto e pulito della parola. Metterci da parte, ma senza sacrificare nulla, perché non sacrifichi nulla della tua creatività se la trasmetti. Non è facile diventare maestri e far divenire protagonisti i propri allievi. Ma per me è qualcosa di abbastanza naturale. Anche perché sto lavorando con artisti della nuova generazione, ventenni e trentenni che ci daranno molte soddisfazioni, con i quali ho un bel rapporto creativo. Penso ad attrici che ho lanciato come Francesca Inaudi, Asia Argento, Claudia Pandolfi o attori come Accorsi, Rossi Stuart, Scamarcio… alcuni di altissimo livello, ormai. Credo che dobbiamo far partecipi gli altri di quel che si è avuto, se no ci rinchiudiamo nel nostro egoismo. Dico la verità, io non sono uno che ama le cose materiali, che so, le case le barche le macchine. Io amo le persone, cerco soprattutto di dare qualcosa alle persone.