Mi ha insegnato a vivere

Fatti inediti o poco noti della fondatrice dei Focolari. Conversazione con Dori Zamboni.
Chiara Lubich e Dori Zamboni

L’età e i malanni hanno potuto velare il timbro della sua voce, ma la limpidezza dello sguardo e il sorriso sono quelli di sempre. Dori, tra le compagne e collaboratrici di Chiara della prima ora, mi accoglie nella casa dei Castelli Romani dove vive insieme ad altre delle prime focolarine. Anche stavolta apre per me lo scrigno dei ricordi: e sono fatti a me noti ma anche no, che nel suo racconto balzano vivi come fossero accaduti ieri. Riguardano gli anni trascorsi in Francia e Inghilterra a diffondere l’ideale dell’unità, come pure la lunga collaborazione al nostro periodico. Ma l’argomento principale è l’esperienza di vita accanto alla fondatrice dei Focolari, che fa di Dori una testimone privilegiata.

 

Cosa è stata Chiara per te?

«È stata una maestra. Non solo perché mi ha insegnato a studiare dandomi ripetizioni per colmare le mie insufficienze in certe materie, ma perché mi ha insegnato a vivere, a sapere come comportarmi davanti alle prove della vita e in qualsiasi situazione.

 

«Mi ricordo che, agli inizi, ai miei genitori l’ideale che volevo seguire sembrava tutta una montatura, uno spiritualismo fuori posto. Si è fatta avanti allora una poetessa che simpatizzava per il nascente movimento e con la quale mi ero un po’ sfogata, per spiegare loro come invece si trattasse di una cosa buona. Senza grandi risultati, a dire il vero. Solo che dopo, non so perché, ho cominciato a sentirmi così a disagio, così angosciata, che sono andata subito a raccontarlo a Chiara. Vedendomi in lacrime e completamente disorientata, mi ha detto: “Sai perché soffri così? Perché hai cercato la soluzione ai tuoi problemi in una persona particolare. Solo mettendo tutto in comune, amandoci e attirando la grazia di avere Gesù fra noi riusciamo veramente a capire come risolvere certe cose”.

 

«E anche in seguito, quando mi vedeva annaspare sotto una prova fisica o spirituale, mi ripeteva lo stesso invito a fidarmi dell’unità, andando avanti insieme. Ogni volta che un’ombra oscurava la mia vita, per me era spontaneo riferirmi a lei come alla mia vera mamma per poter “vedere” di nuovo».

 

Quando hai intuito per la prima volta che Chiara era anche una creatura cui Dio aveva assegnato un compito per la Chiesa?

«Chi mi ha svelato la grandezza spirituale di Chiara e la potenza dell’ideale che portava è stato Igino Giordani, che noi chiamavamo familiarmente Foco, col suo contegno non solo di ammirazione ma, direi, di venerazione. C’è una mia letterina dell’aprile 1949 in cui gli esprimo la mia riconoscenza per questa scoperta, e che ricordo quasi a memoria. Dice fra l’altro così: “È stato come fossi una bimba piccina in braccio a sua madre… Quando tu sei venuto, mi togliesti dal suo braccio e mi mettesti per terra dicendomi: ‘Guarda com’è grande tua madre!’. Mi hai rivelato qualcosa di cui istintivamente ero a conoscenza, ma la tua presenza me l’ha fatto capire in tutta la sua ampiezza”».

 

Chiara formava le prime focolarine  ad una ad una. In che modo?

«Era il periodo subito dopo la guerra. Ricordo che lei approfittava anche di qualche giornata di ritiro spirituale, quando si andava fuori Trento, per esempio sul Cimirlo, per questo “cesello” sulle anime. Io non ero entrata ancora stabilmente nella casetta che chiamavamo “focolare”, come pure altre tra noi. E allora tutte, a turno, facevamo un colloquio privato con Chiara, che stava seduta ai piedi di un albero, e noi accanto. Lei s’informava di come avevamo vissuto la Parola di Dio, del nostro rapporto con Gesù, delle nostre prove, piccole certamente, proporzionate alla nostra età spirituale. E dopo averci ascoltate, dava ad ognuna una risposta e un consiglio ad hoc».

 

La Parola, dunque, è stata la grande passione di Chiara?

«Ti racconto in proposito un episodio poco noto. Nel 1943 si andava insieme, dapprima solo noi due, poi anche con altre, alla chiesetta di Santa Chiara, a Trento, per la messa delle 7. A differenza di noi, che seguivamo la funzione sul messalino, gli altri fedeli ne erano sprovvisti. Così un giorno abbiamo cominciato a copiare su un foglietto il Vangelo del giorno e con la carta carbone ne facevamo più copie da distribuire alla gente alla fine della messa. Poi Chiara ha scritto una lettera infuocata sulla necessità di testimoniare il Vangelo, lettera diffusa da ognuna di noi nella zona affidata (ci eravamo suddivise la città in cinque parti)».

 

A proposito, com’è nato il commento di Chiara ad una frase della Scrittura che tuttora viene diffuso ad ogni latitudine?

«In occasione di un pellegrinaggio ad Assisi col Terz’ordine francescano, il vescovo del posto, che era originario di Trento, aveva chiesto a Chiara di spiegare ai seminaristi una frase del Vangelo a sua scelta. Quel commento era piaciuto, e Chiara era stata invitata a metterlo per iscritto e a diffonderlo in copie ciclostilate con l’approvazione di quel vescovo. È nata così quella che abbiamo subito chiamato “Parola di vita”: ogni sera ci incontravamo per comunicarci come l’avevamo vissuta, le difficoltà e i frutti che aveva portato. In seguito questi commenti periodici alla Parola, approvati anche dall’arcivescovo di Trento, venivano distribuiti anzitutto ai nostri della comunità, e via via a quanti venivano in contatto con noi».

 

Questo bisogno di avere la garanzia della Chiesa è stato un tratto sempre costante di Chiara?

«Sì. Mi ricordo che quando ancora non eravamo approvati come movimento, Chiara non faceva stampare niente di quanto scriveva se prima non era stato rivisto da un sacerdote. Più tardi (abitavamo ormai a Roma, in piazza Palombara Sabina) mi ha fatto leggere una meditazione mirabilmente profonda, perfetta. Don F. però ha eliminato due o tre espressioni. Non riuscendo a distaccarmi dalla mia copia, me la sono messa in tasca. Senonché dopo un po’ Chiara mi ha richiesto l’originale. “Ma Chiara, non posso proprio sopportare che tu debba esser potata così”. “Ma non sai – ha risposto – che ogni potatura porta nuove gemme? Non l’hai ancora imparato?”».

 

A proposito di Roma, cosa ricordi dei primi viaggi da Trento alla capitale?

«Tra i tanti, ecco un fatterello capitato nel ’48 a N., la prima volta che è venuta con noi a Roma. Giunta nella stazione Termini, è rimasta così impressionata dai tanti treni e binari (a Trento ce n’erano solo due) che non faceva che ripetere: “Quante rotaie, quante rotaie”. E Chiara, cui premeva solo l’unità chiesta da Cristo al Padre: “Ma che t’importa? Veniamo a Roma a portare il nostro ideale e tu stai a guardare le rotaie?”».

 

E del periodo in cui il movimento era sotto studio da parte della Chiesa?

«Nell’inverno ’51, noi focolarine trascorrevamo con Chiara alcuni giorni di riposo in un paesino di montagna vicino a Trento, quasi schiacciate da una notizia: sembrava infatti che l’autorità ecclesiastica volesse togliere Chiara a guida del movimento. Desolate, chiedevamo a lei: “Cosa ti succederà? Come minimo ti manderanno in un convento, com’è successo a Bernadette di Lourdes. Ma se ci vai tu, veniamo anche noi”. “No – rispondeva lei –, perché ci metterebbero chi in un posto e chi in un altro. E poi, i focolarini dove andrebbero a finire? Ma noi siamo una cosa sola, siamo uno! Non è possibile separarci”».

a cura di Oreste Paliotti

 

 

 

Un progetto internazionale

 

Chiara per tutti

 

Esce per la penna di Armando Torno e per i tipi di Città Nuova la prima biografia “ufficiale” della fondatrice dei Focolari

 

«Portarti il mondo fra le braccia». Era un “sogno” confidato da Chiara stessa ai suoi in occasione di un viaggio a Fontem nel maggio del 2000. I presenti ricordano la commozione, come è avvenuto in rari momenti, della fondatrice dei Focolari, nell’esprimerlo: «E quale il mio ultimo desiderio ora e per ora? Vorrei che il Movimento dei focolari, alla fine dei tempi, quando, compatto, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli, facendo sue le parole che sempre mi commuovono del teologo belga Jacques Leclercq: “Il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di te. Verrò verso di te, mio Dio, con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia”».

 

Si spiega così il titolo – Portarti il mondo fra le braccia, appunto – di quella che è considerata la prima biografia “ufficiale” di Chiara Lubich a tre anni dalla sua morte. Prima in ordine di tempo, perché non sarà l’unica, come ci spiega Donato Falmi, direttore editoriale di Città Nuova: «Alcuni autori avevano scritto di Chiara, ma mancava una biografia che focalizzasse soprattutto la sua persona e non l’opera nata da lei. Un aspetto importante è l’internazionalità del progetto condiviso sin dal suo nascere da almeno dieci delle editrici di Città Nuova nel mondo, anche se è l’editrice italiana che ne ha proposto e seguito la realizzazione. Naturalmente è solo una prima biografia in vista di una più ampia, più completa, più approfondita che necessiterà di anni, perché non si può certo realizzare in breve tempo una biografia che possa dirsi conclusa, vista la complessità della figura della Lubich».

 

Falmi:

pagine dense di novità

 

Prima in ordine di tempo, perché non sarà l’unica, come ci spiega Donato Falmi, direttore editoriale di Città Nuova: «Alcuni autori avevano scritto di Chiara, ma mancava una biografia che focalizzasse soprattutto la sua persona e non l’opera nata da lei. Un aspetto importante è l’internazionalità del progetto condiviso sin dal suo nascere da almeno dieci delle editrici di Città Nuova nel mondo, anche se è l’editrice italiana che ne ha proposto e seguito la realizzazione. Naturalmente è solo una prima biografia in vista di una più ampia, più completa, più approfondita che necessiterà di anni, perché non si può certo realizzare in breve tempo una biografia che possa dirsi conclusa, vista la complessità della figura della Lubich».

 

Quali le principali differenze con le biografie già esistenti?

«Una diversità ci sembra notevole: quando Chiara era ancora viva, non poteva aprire alcuni capitoli della sua esperienza personale, per un’evidente discrezione. Adesso che lei non è più fra noi si possono raccontare alcuni fatti di cui non è stato possibile parlare sufficientemente prima, dalla novità portata dal carisma dell’unità all’interno della compagine cattolica del tempo, ad un periodo di particolare illuminazione vissuto nel ’49, all’esperienza di quelle che vengono chiamate “notti”, momenti dello spirito che tanti santi e mistici hanno vissuto e che anche nella vita di Chiara si sono succeduti più volte».

 

Perché la scelta di Armando Torno come autore?

«Per l’intenzione stessa del libro, cioè quella di realizzare una pubblicazione che riesca a parlare di Chiara a tutti, con uno sguardo distaccato e con l’autorevolezza di chi la guarda comunque dal di fuori, cosa che non sarebbe possibile per un autore del movimento».

 

Torno:

una grande sorpresa

 

Armando Torno, appunto, l’autore di questo volume intenso ed agile allo stesso tempo. Giornalista e scrittore, editorialista del Corriere della Sera, da tempo in contatto con Città Nuova, alla cui produzione ha dedicato un gran numero di recensioni sulle pagine culturali da lui dirette.

«Non avevo conosciuto personalmente Chiara Lubich – ci racconta – e dunque la proposta di scrivere una biografia su di lei è stata per me una delle più grandi sorprese». Comincia quindi a documentarsi, a incontrare «il gruppo fondatore con Chiara», Eli Folonari, si reca a Trento dove entra in contatto con diversi contemporanei di Chiara. «Il mio è stato un lavoro più sulle fonti che sui documenti – ci spiega . Ed è un lavoro che va oltre l’aspetto professionale, anche perché lo dono gratuitamente al movimento».

 

 In che modo, secondo lei, Chiara e la sua opera sono espressione del Novecento?

«In lei ci sono indubbiamente l’angoscia, le gioie, le grandi aperture, ma anche le cose tremende del Novecento. Cresce da bambina in un mondo che è immerso nella realtà della Prima guerra mondiale, vive in maniera eroica e drammatica la Seconda guerra mondiale e negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il movimento si sviluppa, vede un mondo completamente rinnovato. In questo mondo lei si innesta con un’idea rivoluzionaria. Se oggi qualcuno mi chiedesse di scegliere un argomento per parlare di Chiara, io direi: “Chiara è la persona che anticipa meglio di ogni altra all’interno della Chiesa cattolica lo spirito del Concilio Vaticano II. In primo luogo perché è una donna, poi perché coglie la capacità di poter unire le persone attraverso un nuovo sguardo economico e sociale e crea un movimento che risponde a quelle che sono le esigenze di un mondo che si vuole rinnovare. Guardiamo a Chiara per capire lo spirito del Vaticano II”».

 

Quale la portata della vita e dell’opera di Chiara?

«L’universalità di Chiara è la capacità di aver anticipato il mondo globalizzato con dei valori globalizzabili».

 

Un testo che contribuirà a far conoscere Chiara anche a chi non l’ha mai incontrata. Lei cosa si augura?

«L’ho scritto proprio per questo, perché la figura di Chiara merita di essere conosciuta e la sua opera rispettata anche in quegli ambiti che sovente non se ne occupano. Scrivendo la biografia, mi sono reso conto che ci troviamo di fronte ad una persona che è sì scomparsa, ma allo stesso tempo molto presente nell’opera da lei realizzata, nell’insegnamento che ha lasciato, nelle sue azioni che rimangono nel tempo e diventano esempi, motivi di fede. Questa donna ha vissuto da religiosa pur vestendo abiti laici; ha fatto una vita santa, pur essendo completamente nel mondo; ha organizzato un movimento che è in ogni parte della Terra pur rimanendo una persona semplicissima. Il modello di Chiara è una bella soluzione che il Novecento ci ha dato, un cristianesimo che non segna i confini, ma reca un messaggio.

«Il mio compito era quello di avviare un percorso che sicuramente sarà seguito da altri approfondimenti. Io penso poi che un grande lavoro dovrà farlo la Chiesa, la quale dovrà occuparsi di Chiara perché, senza esagerazioni, ha le caratteristiche di una vera santa del nostro tempo».

 

Aurora Nicosia

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