Mèyra dei disperati
Sera dell’antivigilia di Natale di una ventina di anni fa. Da un’auto parcheggiata nei pressi della stazione veronese di Porta Nuova esce una signora non più giovane carica di pacchetti, si avvicina ad una delle prostitute della zona e, augurandole Buon Natale, la bacia e gliene porge uno. L’altra la guarda con tanto d’occhi: Ma lo sai chi sono?. Sì che lo so: una creatura di Dio come sono io. E mi abbracceresti anche alla luce del sole? . Certo, trovati domani a piazza Bra e vedrai. La scena si ripete con le altre. E pensare – le dicono incredule e contente – che c’è chi ci sputa addosso, mentre tu per giunta ci porti un regalo. Brusca è invece la reazione del protettore, che la tratta da rompiscatole. Ma lei non disarma: Invece di far tante storie, cerchi di cambiare anche lei: siamo a Natale!. E dopo averlo ammansito con un pacchetto di sigarette, Mèyra (così si chiama la signora) continuare a distribuire regali indisturbata. Fra quelle donne spicca per la sua avvenenza una giovanissima. L’avvicina: austriaca, è scappata di casa per contrasti con i genitori; sta battendo il marciapiede per la prima volta, confessa. Dai, vieni con me – la invita caldamente -, sei ancora in tempo. Senza badare agli sguardi da lupo di qualche cliente di passaggio che cerca di agganciare la ragazza, tanto fa che la convince a salire con lei sull’auto dove è rimasta la sua amica Emiliana: insieme le troveranno un alloggio per quella notte. Ma non è finita. I Natali seguenti tutte e due tornano dalle ragazze di Porta Nuova e in una di queste visite riescono a concludere il salvataggio di una slava alla quale, in seguito, procureranno un lavoro… e perfino un marito! Le notti successive Mèyra viene insultata e minacciata di morte al telefono ora dall’uno ora dall’altro protettore, inviperito perché gli porta via le ragazze. L’ultimo, uno dall’accento slavo, si sente però investire nella sua lingua: Aprite le porte a Cristo, come dice il papa! Sì, anche voi che sguazzate nel fango aprite le porte a Cristo!. Un profondo sospiro, come di uno che ha ricevuto una pugnalata, e la comunicazione si interrompe. Niente più telefonate minatorie. A questo appuntamento natalizio Mèyra è rimasta fedele anche ora che Emiliana non c’è più: Era una donna eccezionale – così la ricorda -: gestiva con amore sconfinato una cooperativa per malati di mente e nella sua grande casa accoglieva gente bisognosa, anche ammalati di Aids. La chiamavano la Madre Teresa di Parona. E poi ci sono i carcerati. L’approccio di Mèyra con quest’altro mondo è iniziato suppergiù nello stesso periodo. Per caso, raccogliendo un giornale abbandonato, avevo letto l’appello di una nota brigatista rossa detenuta nel supercarcere di Paliano: cercava disperatamente qualcuno che le facesse conoscere Gesù. D’impeto le ho scritto e da allora abbiamo iniziato una regolare corrispondenza. Ad un certo punto, siccome lei aveva espresso il desiderio di conoscermi, ho scritto all’allora ministro Martelli, che ha preso a cuore la faccenda. Dietro suo suggerimento, siccome insegno anche danza classica, con le mie ragazze del catechismo ho allestito per i detenuti uno spettacolo che rappresentava simbolicamente la speranza di libertà di chi vive dietro le sbarre. Il questore però, cui mi ero rivolta per il permesso, mi ha trattata da pazza: Crede ancora alle parole di quel tale che diceva: Ero in carcere e siete venuti a visitarmi?. Non solo – ho ribattuto -, ma credo pure a queste altre: Amatevi come io vi ho amato. E lei, invece di contestarmi, dia a quel tale il nome che gli spetta e sia esempio di bontà col firmarmi questo permesso. Per farla breve, verso metà dicembre del 1987 Mèyra col suo gruppo di ragazze accompagnate dalle mamme arriva su una corriera scassata a Paliano. Incurante della diffidenza del direttore del carcere (Ma chi è questa Lucchi? lo sente borbottare piuttosto contrariato) e dopo le perquisizioni di rito, le fa danzare con grande successo nell’ambiente più spazioso di quell’istituto di pena: la cappella, per la quale ha avuto un permesso speciale del vescovo di Frosinone. Su cinquanta reclusi, venti erano ammalati di tbc: per precauzione li avevano fatti assistere allo spettacolo dalle ultime file. Alla fine io e l’Emiliana siamo andate a baciare anche quelli. Uno di loro mi ha detto: Non ha paura? Sa, sono all’ultimo stadio. No, ho risposto. E difatti non ho preso niente, anche se sono una schiappa come salute. Ci hanno poi permesso di intrattenerci a cena con i detenuti, per ciascuno dei quali avevamo portato un regalo. Per pernottare abbiamo dovuto cercare alloggio a La Forma, un paese vicino… finendo in un albergo pieno di prostitute con relativi protettori. Allora, da sfacciata, ho convinto l’albergatrice a farci ripetere il nostro balletto anche per queste creature. E pensa, diverse di loro sono rimaste così toccate dal messaggio che portavamo che hanno dichiarato di non poter più continuare la vita di prima. Ai detenuti di Paliano Mèyra tornerà ad offrire serate artistiche anche negli anni seguenti, superando ogni volta comprensibili difficoltà. Ora però anche col sostegno di altri che si sono aggiunti: Gabriella, Bruna e il suo ex parroco don Flavio, con i quali condivide la spiritualità dei Focolari. Ci siamo andati finché la mia corrispondente e quasi tutti quelli che conoscevamo sono usciti (con l’aiuto della Caritas abbiamo trovato un lavoro sia a lei che ad un altro). A conclusione di questa esperienza, quel direttore prima ostile ha dichiarato, dandomi una amichevole gomitata: Se non ci fosse stata la sua pazzia, questo covo di vipere non sarebbe diventato un nido d’amore. In effetti durante quel periodo tra i detenuti qualcosa era cambiato, tanto che andandoli a trovare si respirava un clima di famiglia. Sei anni fa Mèyra iniziava a corrispondere con un’altra nota detenuta, questa volta di Rebibbia: L’avevo vista in tv in occasione della sua condanna per omicidio ed ero rimasta toccata dalle sue parole: Voi mi condannate, ma Dio che vede tutto sa che sono innocente ed io mi affido a lui. Attualmente, dopo aver scontato 16 anni, lavora in regime di semilibertà presso certe suore. Almeno una volta l’anno, insieme a don Flavio, salute o non salute, vado a trovarla a Roma per un paio di giorni: ci tiene troppo a questi incontri che – dice – le danno la forza di vivere. Ormai è una persona completamente trasformata, di grande fede. Meyra vive a Parona, piccolo borgo veronese sulle colline del Valpolicella. Nessuno darebbe 81 anni a questa vedova istriana malandata in salute, che ha bisogno di un peace maker per ridar forza al suo cuore… un cuore grande, che abbraccia tutta l’umanità. Anche qui, al tempo della guerra nei Balcani, arrivavano profughi dalla Bosnia. Gente bisognosa di tutto, che trovava sostegno in lei e nell’amica Emiliana. Il questore, al quale mi rivolgevo sempre per procurare i visti a quei poveretti, una volta è sbottato: Ma insomma, quando finirà di venire qui ad aiutare il prossimo?. Gli ho risposto: Dottore, il giorno in cui leggerà sull’Arena del mio funerale, non la importunerò più. Ma fino ad allora…. Non c’è giorno che il telefono, il telefonino e il campanello di casa Lucchi non squillino. A volte suonano contemporaneamente – ride Mèyra – e non so a quale dei tre rispondere prima. Si tratta per lo più di persone che hanno bisogno di aiuto, e sono di tutte le categorie: coniugi in crisi, figli scappati da casa o a terra per una delusione amorosa, casi di separazione, donne con figli a carico abbandonate dai mariti… Oppure bisognosi, extracomunitari che cercano un aiuto economico, un tetto, un lavoro. Manca solo il frate, mi diceva mio marito. Io faccio ciò che posso con aiuti concreti ma soprattutto ascoltandoli. Veramente c’è una grande fame di ascolto! Qualcuno di loro mi dice, alludendo alla mia età avanzata: Non morire, Mèyra, perché abbiamo bisogno di sentire la tua voce!. Altre volte, invece, è gente che aiuto con lezioni private: non per nulla sono stata professoressa di lettere per 43 anni. Arrivano dalla vicina Verona, ma anche da posti lontani dove Mèyra non conosce nessuno. Chi glielo ha detto di me? Forse qualcuno aiutato in passato che ha detto ad un altro: va’ da quella lì… Non saprei spiegarmelo diversamente. Anche per strada mi capita di essere fermata da qualcuno che vuol confidarmi qualche sua pena. Non so, avrò stampato sulla faccia qualcosa per cui… A volte ne ho anch’io di problemi, ma quando riesco a dimenticarmene per occuparmi di quelli degli altri, provo una pace e una gioia che non so dire. Amare è la più grande fortuna. Mentre rendi felici gli altri, rendi felice anche te stessa. Mèyra dei disperati… Glielo ha detto una volta anche mons. Amari, che è stato vescovo di Verona e ne aveva grande stima: Guardi che lei ha proprio un carisma per i disperati…. E lei: Sa, eccellenza, anche mio marito me lo diceva, scherzando: tu devi avere qualcosa, perché vengono qui agitati e in lacrime e se ne vanno via tranquilli . Ma io non scherzo – si è sentita rispondere -: eserciti questo dono fino alla morte. Quanto al vescovo attuale, mons. Carraro, dopo aver letto le letterine dei ragazzi che Mèyra prepara al catechismo, l’ha incoraggiata anche lui, malgrado gli acciacchi dell’età, a proseguire questo servizio fino alla morte. Due consegne alle quali lei, con la generosità che le è propria, sta tenendo fede.