Mèyra con fede e coraggio

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Quando, quel 2 febbraio 1945, uscii dal mio rifugio al centro di Fiume, rimasi come paralizzata: proprio di fronte a me, non lontano dal comando tedesco, la casa della mia adolescenza bruciava come un rogo, colpita da una bomba incendiaria. Sentii l’urlo di mia mamma e la vidi correre tra le macerie con la speranza di salvare qualcosa. Non ci restava nulla, tranne quello che indossavamo. Sconvolta, scappai di nuovo in quel tunnel divenuto ormai la mia casa, sopraffatta da uno strano struggimento. Era come se qualcuno mi chiamasse ed io non potessi rispondere, né raggiungerlo. Cos’era quel qualcosa a cui anelavo da così tanto tempo? Mèyra, che fai qui sola? – mi sussurrò Anna, una cara amica -. Domani verresti con me alle riunioni di padre Quattrocchi? Non starai mica sempre chiusa nel rifugio?. Lo sai che odio le riunioni, Anna, e non ho voglia di ascoltare prediche. Presi un cuscino e cercai di dormire. Ai primi albori, il vivo ricordo del giorno precedente, saturo di scoppi e di incendi, fece dileguare ogni lieto pensiero. Mi vestii in fretta e mal volentieri, per accontentare l’amica, mi avviai all’istituto dove quel sacerdote teneva una conferenza sul tema: Vivere il Vangelo per scoprire l’amore di Dio. Per nulla interessata, sfogliavo le pagine di un libro quando ad un tratto mi ritrovai in lacrime, come dinanzi a un panorama di maestosa bellezza. Credente per tradizione, cominciavo ad assaporare un Vangelo tutto nuovo” Con il cuore in gola cercai una chiesa e per la prima volta capii cosa significasse incontrarsi con Dio nella confessione. Provavo una gioia indicibile, mi sentivo libera, guidata da un Padre che, se aveva permesso la distruzione della mia casa e le sciagure di una guerra, era capace di trarre da ogni cosa un bene anche per me. Tutto ora aveva un senso, gioie e dolori, croci e peccati della mia breve vita; tutto era preparazione al compito al quale Cristo mi aveva destinata, anche se a me ancora ignoto…. Mèyra Lucchi Moise è una profuga istriana che da quasi cinquant’anni vive a Parona, borgo veronese presso le verdi colline del Valpolicella. Dolce ed energica, non dimostra i suoi ottant’anni, temprata com’è da una vita burrascosa, costellata di eventi non comuni che non è facile riassumere. Il suo racconto riprende con la descrizione dell’arrivo, a bordo di un peschereccio, nell’isola natia nel golfo di Fiume, lasciata 10 anni prima per dedicarsi agli studi superiori. Cherso si stagliò finalmente nella notte, segnalata dalla lanterna. Il reinserimento nella mia terra, nella casetta della mia infanzia ancora risparmiata dalla guerra, nonché la selvaggia bellezza della natura, resero lieti i miei primi giorni lì. Mi scosse dall’incanto solo la voce rude di un soldato slavo che cercava mio padre. Corsi trafelata in casa, dove era in atto una perquisizione. Papà era stato arrestato senza un’accusa specifica e senza la possibilità di difendersi. Si susseguirono ore di angoscia e di attesa, e poi mesi senza che nessuno riuscisse a darci una spiegazione convincente. Da poco eravamo stati occupati dai comunisti slavi, e per potersi difendere bisognava conoscere la lingua. Sola tra persone che non si curavano del mio dolore o mi schivavano per paura di essere tacciate da complici, mi affidai ad un altro Padre e, rinvigorita nell’animo, mi accinsi con lena a studiare lo slavo. Volevo capire ciò che succedeva attorno a me, essere in grado di far venire in luce la verità! Ma una notte venni svegliata da un gran stridio di freni giù in strada. Due poliziotti salirono le scale di casa e a mia madre, tremante, chiesero della professoressa (insegnavo alla scuola media italiana). Avevo 21 anni e, tra le lacrime, stavo per replicare qualcosa quando Taci!, mi ordinò bruscamente uno dei due. Sotto una pioggia battente m’incamminai verso il comando di polizia e varcai quella soglia che già aveva attraversato mio padre prima di me. Nell’ufficio dove fui introdotta sotto la minaccia di un fucile spianato, sei persone mi sottoposero ad una serie di interrogatori. O Dio o il lavoro! Scegli! – era questo il ritornello -. Un insegnante non può, in una società atea, dare testimonianza di fede. E tu cerchi di trascinare dalla tua le allieve che credono in te. Risposi che non facevo del male a nessuno, che la mia fede voleva essere amore vissuto, per tutti, anche per loro. Non avrei mai rinunciato a Dio, mai. Glielo gridai con tutte le mie forze. Mi lasciarono ritornare a casa a queste condizioni: non avrei più insegnato e mi sarei dovuta convertire al marxismo, perché, a sentirli, sarei diventata una buona pedina nel loro gioco. Fino ad allora, nonostante la guerra, avevo goduto la mia adolescenza, paga dei corsi di danza classica, degli studi, delle corse nei campi. E poi tra i genitori e noi tre figli ci si voleva veramente bene. Non pativo certo di carenze affettive. Ora, invece, si profilavano giorni veramente bui. Ogni sera, alle 21, vedevo arrivare a casa mia un giovane ufficiale di polizia, con il suo Capitale tra le mani. Fu come in un duello ad oltranza: da una parte Milan (così si chiamava) con la sua arroganza, determinato a convertirmi, dall’altra io con la mia timidezza, ma altrettanto ferma nel difendere ad ogni costo la mia fede. Quando dopo due mesi non lo vidi più arrivare, pensai che si fosse stancato di catechizzarmi; altri dicevano che era morto di tisi fulminante. Mi misi a pregare per lui, perché, in fondo, era un puro, uno che credeva nei suoi ideali. Maggio 1946. Guarita insperatamente da una grave malattia, a Mèyra non resta neppure il tempo di gioire con i suoi del dono della salute recuperata: un dispaccio annunciante la liberazione del capofamiglia intima al tempo stesso ai Moise di partire per l’Italia. L’ora di dire per sempre addio alla terra natia è arrivata. Avevamo perduto tutto, ma ri- conquistato la libertà di parlare, di vivere, di credere. Dopo una tappa a Trieste, con un gruppo di venti persone fummo dirottati al campo profughi Giacinto Gallina di Venezia. Un luogo squallido, dove sostammo alcuni mesi assieme ad una folla di uomini e di donne in cerca di una patria, di una casa, di un lavoro. Finalmente, una lettera del Provveditorato di Gorizia mi comunicò che avevo ottenuto un incarico come insegnante nella scuola media di Grado. Fu come un balsamo all’anima, anche se ciò significava il distacco dai miei. Insegnare per me è stata sempre una missione da vivere nella gioia, donando il meglio di me stessa. Ma gli anni passavano, avevo ormai 25 anni e più volte, nell’intimo, chiedevo a Gesù: Signore, che vuoi che io faccia?. Sognavo di realizzarmi in un apostolato consacrato e di dedicarmi agli altri in una missione; a volte l’idea di una famiglia tutta mia si affacciava alla mia mente, ma gli uomini incontrati mi avevano spento ogni entusiasmo. Magari ne avessi trovato uno che amasse Gesù come io l’amavo… Fu nell’Anno santo del 1950, durante un corso di esercizi spirituali, che capii che la mia strada era proprio quella del matrimonio. Un mese dopo ricevetti da Verona una lettera sorprendente da parte di uno sconosciuto. Si presentava asserendo di non avermi mai vista, ma di aver sentito parlare di me in un convegno di Azione cattolica a cui aveva partecipato in quanto presidente diocesano. Il prof. Severino Lucchi (questo il suo nome) da sempre sognava di incontrare una giovane secondo il cuore di Dio ed aveva la sensazione che la sua preghiera fosse stata esaudita. Corrispondemmo per mesi e, quando riuscimmo ad incontrarci, fu come ci conoscessimo da sempre; immediata la sintonia dei cuori. Dopo quattro anni di fidanzamento ci sposammo a Gorizia, dove nel frattempo si erano trasferiti i miei genitori. Il nostro fu un matrimonio felice, da cui nacquero Giovanni (ora papà di quattro nipoti meravigliosi), una bimba che purtroppo morì sul nascere e un’altra sorellina, cieca, che però accettai senza versare una lacrima: il pianto mi sarebbe sembrato un insulto a Dio che aveva certamente i suoi disegni su quella creatura. Piansi solo il giorno della sua morte. Appena rinata al vangelo, come risposta d’amore Mèyra ha offerto a Dio la sua vita per tutti i sacerdoti del mondo. La vita non le sarà richiesta, ma in cambio riceverà una lunga esistenza costellata di tappe dolorose. La grazia tuttavia di capire che anche il dolore è dono, che dalla croce scaturisce l’amore vero, Meyra la deve al Movimento dei focolari, conosciuto nel 1983 attraverso il suo parroco. Da allora accetta con generosità le numerose prove, sforzandosi, dice, ogni giorno di scoprire, anche tra le righe delle vicende dolorose, quel ricamo d’amore che Dio aveva preparato per me. Ciò che conta per lei ormai è farsi tutto a tutti, aprire il cuore ad ogni prossimo, anche se questi è un nemico, un persecutore. Come dimostra questo episodio dell’estate del ’96. Mi trovavo in ferie a Cherso quando all’improvviso riconobbi, a venti metri da me, colui che io credevo morto e che nel lontano ’45 mi aveva arrestato. Il mio cuore diede un balzo mentre, in un attimo, ripensavo alle parole evangeliche: Amate coloro che vi odiano. Gli andai incontro e lo abbracciai come ritrovassi un vero amico. L’uomo, ormai anziano, aveva le lacrime agli occhi. Ho atteso da tempo questo momento – disse -. Volevo vedere se la ragazza che per Cristo aveva perso il lavoro, per Cristo sarebbe stata capace di perdonare. Lo rividi l’anno dopo: Il suo perdono e il suo abbraccio – confidò quella volta – mi hanno fatto scoprire, dopo sessant’anni, Cristo e la sua chiesa. Morì due anni dopo. È solo una delle tante perle di una vita che potrebbe esser materia di un romanzo. Ed oggi? Malgrado l’età, questa vedova ormai da sei anni non ha diminuito la sua donazione verso chiunque, si tratti dei ragazzi del catechismo o dei tanti poveri, profughi ed extracomunitari a cui presta assistenza; dei carcerati con cui corrisponde oppure delle prostitute della stazione di Verona-Porta Nuova, che ogni fine anno, nel periodo natalizio, avvicina con un dono perché riscoprano anche loro in sé la dignità dei figli di Dio. Intrepida e giovane nel cuore, sembra l’incarnazione del suo stesso nome: non per niente, in arabo, Mèyra vuol dire portatrice di luce.

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