Messico-USA: continua il calvario dei migranti
Si aspettavano maggiori possibilità di entrare negli Stati Uniti. A mezzanotte dell’11 maggio scadeva il “Titolo 42”, la norma dell’amministrazione Trump che per motivi sanitari (la pandemia di Covid) limitava fortemente l’immigrazione – e che aveva permesso l’espulsione di oltre 2,8 milioni di migranti negli ultimi tre anni –.
A causa della disinformazione fomentata dalle mafie del “contrabbando di persone”, per tanti messicani, centro e sudamericani ed haitiani questo significava una sorta di “apertura di frontiere”. Ma “la frontiera non è aperta”, insiste il Segretario Usa alla Sicurezza Interna.
Le nuove regole, in realtà, complicano la vita alle decine di migliaia di persone che fuggono da situazioni insostenibili nei Paesi a sud del Rio Grande/Rio Bravo. E così, l’invasione temuta dai repubblicani non c’è stata, anzi gli arresti per ingresso irregolare sono scesi dagli 11 mila dei giorni precedenti il 12 maggio a una media di 4 mila al giorno. Non si tratta però di un’inversione di tendenza: i migranti non hanno attraversato la frontiera ma non sono neppure tornati a casa. Sono ancora lì, e sarebbero tra 120 e 150 mila.
La settimana scorsa, alcuni colombiani che sono stati espulsi, incatenati “per motivi di sicurezza”, hanno denunciato attraverso Bbc Mundo “trattamenti disumani” da parte degli agenti migratori statunitensi e la totale assenza della possibilità di esporre la loro situazione e di chiedere asilo.
Così cresce l’emergenza in Messico: i rifugi per migranti sono saturi, aumentano le persone che dormono per la strada e i sequestri di persona, e nella stessa capitale messicana molti tornano ad accamparsi in spazi pubblici. Per decongestionare le città di frontiera, le autorità trasferiscono i migranti in pullman, a centinaia per volta, verso centri per la regolarizzazione di richiedenti asilo situati in altri stati. Allo stesso tempo, si è praticamente chiusa la frontiera con il Guatemala, fra le proteste di Amnesty International e delle organizzazioni di sostegno a migranti e richiedenti asilo.
La situazione è davvero complessa. Il ritorno in vigore del Titolo 8 stabilisce la deportazione e la proibizione di ingresso per almeno cinque anni per chi entra negli Stati Uniti illegalmente, e l’impossibilità di asilo per chi non l’ha richiesto prima di giungere al confine e per chi non può dimostrare di averlo chiesto prima ad un Paese terzo, salvo che lo faccia attraverso l’apposita app Cbp One e spieghi poi, in maniera convincente durante l’udienza successiva, perché non l’ha fatto. In caso di reiterazione di immigrazione illegale è poi previsto un processo penale, con il rischio del carcere.
L’intenzione è quella di offrire un modo “sicuro, umano e ordinato di arrivo negli Stati Uniti”, come ha affermato il Segretario alla Sicurezza Interna, Alejandro Mayorkas. Inoltre, si è annunciato l’ampliamento a 30 mila permessi di soggiorno mensili complessivi per cittadini di Venezuela, Cuba, Nicaragua ed Haiti; e l’ampliamento dei ricongiungimenti familiari anche a cittadini di Colombia, Salvador, Guatemala e Honduras e per minorenni non accompagnati di qualsiasi nazionalità.
Grazie ad accordi internazionali, il governo Biden aprirà centri per richiedenti asilo anche all’estero (Colombia e Guatemala) e si impegna a stanziare fondi per combattere la disinformazione e il “contrabbando di persone”.
Piovono però le critiche dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani, e da quelle di aiuto ai migranti, che denunciano diversi ostacoli pratici e illegalità concettuali. La app Cbp One limita a mille le richieste giornaliere di appuntamento, e permette di effettuare l’operazione solo dagli stati del sud e del centro del Messico.
Rimane la possibilità di richiedere l’appuntamento per via telefonica, ma in quel caso occorre spiegare i motivi della richiesta, del perché tornare nel proprio Paese rappresenti un grave pericolo e perché non si è chiesto asilo in Messico. Tutto ciò viola il diritto internazionalmente riconosciuto ad entrare in un Paese e sollecitarne la protezione in caso di pericolo.
Se si ottiene l’appuntamento, la prima tappa è un colloquio nel quale si espone il “timore credibile di persecuzione o tortura” in caso di ritorno nel Paese di origine. Sono oltre 11 mila le deportazioni attuate nella prima settimana dopo la fine del Titolo 42.
In seguito agli accordi Usa-Messico del novembre scorso, il governo di José Manuel López Obrador ha smesso di concedere permessi di transito a chi si dirige verso gli Stati Uniti, ed ha accettato di ricevere i migranti rifiutati dagli Usa se provenienti da Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela. È la prima volta che si deportano in Messico cittadini non messicani.
Cosa succederà adesso? Gli esperti temono una crisi severa. López Obrador ha promesso un approccio umano, ma i permessi di soggiorno per motivi umanitari che aveva annunciato si concedono con il contagocce e in casi particolarmente “mediatici”, come le 48 persone rapite e poi liberate da un’organizzazione criminale.
È vero che negli ultimi anni ci sono state meno espulsioni – dal 94 % degli arrestati alla frontiera tra il 2011 e il 2018 al 24 % del 2022 – ma non è certo che si manterrà questa tendenza, insieme a quella di una maggiore accoglienza di rifugiati.
Allo stesso modo, come ha ricordato a Deutsche Welle l’esperto di migrazione Messico-Usa Eduardo Torre, durante il governo attuale «si sono riconosciuti in modo crescente i diritti di un maggior numero di rifugiati e si è venuti incontro a chi sollecita protezione internazionale in Messico». Da qui ad un’effettiva integrazione, però, la strada è ancora lunga. Mentre l’urgenza preme.
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