Messico, 300mila sfollati per le violenze
Non è facile frenare la violenza in Messico. Settimana dopo settimana appaiono nuovi casi di omicidio senza che le autorità giudiziarie e di polizia riescano a individuare i colpevoli e, soprattutto, a neutralizzarli. Ne sono un esempio emblematico l’assassinio di vari giornalisti “colpevoli” di mettere il naso dove non dovevano e quello dei 43 studenti di Ayotzinapa, massacrati nel settembre del 2014 con la complicità delle autorità locali. Le indagini finiscono spesso in un vicolo cieco, mentre le ferite sociali restano aperte. Più recentemente ha fatto scalpore l’assassinio di tre studenti sequestrati e trucidati a Jalisco… per sbaglio. Qualcuno li ha confusi per membri di un cartello criminale avversario e ciò è bastato per decretare la loro morte.
In dieci anni, si registrano 200mila omicidi in un Paese dove alla violenza si unisce l’impunità. A marzo, l’Università delle Americhe di Puebla ha divulgato uno studio nel quale viene segnalato che appena l’1 per cento dei delitti è denunciato e solo il 3 per cento delle indagini delle forze di polizia sfocia in una sentenza. Mentre in queste settimane si è avviata la campagna elettorale in vista delle votazioni presidenziali di luglio, il quadro offre altri due elementi inquietanti: quello dei desaparecidos, le cui stime oscillano tra le 22-27 mila persone sparite nel nulla e che, con tutta probabilità, sono già state eliminate dai sequestratori; e quello degli sfollati e dei rifugiati per la violenza, che fino a dicembre scorso erano circa 329 mila secondo una prima stima, ma i numeri reali potrebbero arrivare al milione, il che ci pone davanti a una emergenza umanitaria che non viene ammessa.
In merito agli sfollati per la violenza, i dati a disposizione divulgati dalla Commissione messicana per la difesa e la promozione dei diritti umani (Cmdpdh), parlano di circa 20 mila persone che nel 2017 hanno abbandonato tutto in 25 differenti casi. La Cmdpdh, sostiene però che la cifra di 329 mila sfollati è molto prudente, perché in realtà tiene conto solo dei casi in cui intere comunità hanno abbandonato il luogo di residenza, senza includere le famiglie o le singole persone messesi in salvo individualmente.
José Guevara, direttore esecutivo della Cmdpdh, sostiene che il governo conosce il numero reale del fenomeno e questo potrebbe superare il milione di sfollati, ma non lo divulga perché significherebbe «riconoscere l’entità del problema e l’esistenza di un conflitto armato». Gli Stati di Guerrero, Sinaloa, Chihuahua, Chiapas e Oaxaca hanno concentrato praticamente tutti i casi di sfollamento massivo dello scorso anno. Di questi, 6 mila nello Stato di Chiapas.
Nel 70% dei casi, le persone sono fuggite dopo incursioni nelle loro comunità di gruppi armati organizzati, che hanno attaccato le persone, saccheggiato i negozi e reclutato a forza le vittime. Un terzo degli sfollati è statomessoin fuga da conflitti territoriali. Nello Stato di Zacatecas, un progetto minerario ha provocato l’esodo di un intero paese.
Il 60% delle vittime di questo fenomeno appartiene ai gruppi indigeni. Non si sa bene cosa succeda dopo la fuga. Branda Pérez, della Cmdpdh, segnala che spesso le persone rimangono nel territorio municipale o nello Stato (il Messico è un Paese federale, composto da 31 Stati), per poi tornare alle loro case. Ma ci sono vari Stati che ricevono i rifugiati.
Lo scarso numero di casi criminali che approdano a una sentenza e il modo di agire della giustizia, indicano che la corruzione è insita nei gangli anche dello Stato e lo neutralizza. La Commissione interamericana per i diritti umani lo ha fatto presente lo scorso anno, pur manifestando apprezzamento per gli sforzi compiuti per rendere più agile l’azione di giudici ed inquirenti. La Cmdpdh sottolinea che è necessario che il governo riconosca il problema e siano adottate misure protettive nei confronti di sfollati e rifugiati.
Durante il primo dibattito televisivo tra i candidati alle presidenziali, il tema della violenza ha fatto la sua comparsa. I due avversari che raccolgono il maggior numero di preferenze, secondo i sondaggi, Andrés Manuel López Obrador (39 per cento), e Ricardo Anaya (25 per cento), hanno visioni differenti. Il primo, propone di convocare esperti per affrontare il tema, il secondo ha elaborato un programma di 40 punti, basato su attività di prevenzione (cultura, educazione, sport e lavoro) e sul potenziamento della polizia e delle forze armate.
Sono passati più 12 anni da quando, durante la gestione del presidente Felipe Calderón, venne dichiarata la guerra contro i cartelli della criminalità. I risultati di un’azione che mirava a privilegiare solo il lato repressivo del problema sono stati catastrofici ed i numeri lo dimostrano. Durante l’attuale gestione di Enrique Peña Nieto la situazione è peggiorata senza che ci fosse un chiaro obiettivo politico. Pare proprio poco dover attendere il prossimo governo per capire come affrontare un conflitto armato latente, con risvolti da emergenza umanitaria. Intanto è chiaro che la risposta non è nel grilletto facile.