Il merito e la povertà come colpa
Sempre più spesso, leggendo i giornali, assistendo ai talk televisivi, ascoltando le dichiarazioni di molti politici, si ha la sensazione che la povertà sia diventata una colpa. Che la disoccupazione sia una conseguenza della pigrizia di chi preferisce il divano ad un lavoro degno. Che un impiego pubblico sia segno di parassitismo e che solo un lavoro autonomo e una attività possano apportare un contributo positivo al benessere delle comunità.
Dietro questa lettura dei rapporti sociali ed economici vi è una visione del mondo intrisa di quella che alcuni definiscono la “retorica della meritocrazia”. Non è un caso, in questo senso, neanche la nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione e del merito. Ma credere ragionevolmente che “chi si impegna ce la può fare” spesso si porta dietro anche l’implicazione meno ragionevole secondo cui “chi non ce l’ha fatta non si è impegnato abbastanza”. E allora perché investire un sacco di soldi in politiche di supporto agli ultimi, ai poveri, ai più fragili e vulnerabili?
Facciamo un esperimento. Immaginate di essere in una prima elementare. Test di matematica. Alcuni alunni andranno bene e altri andranno male. Nulla di strano. È nella natura delle cose. Proviamo ora ad associare il reddito delle famiglie di origine ai risultati nei test; vedremo che quelli che vanno meglio provengono tutti da famiglie con redditi più elevati mentre quelli che vanno peggio hanno alle spalle famiglie più povere. Possiamo dire che quei risultati scolastici misurano il merito di quegli studenti?
Seguiamo quei bambini e quelle bambine nella loro carriera scolastica. Proviamo a incontrarli alla fine delle scuole medie. Quello che vedremo è che, in media, quelli che erano più bravi in prima elementare saranno diventati i più bravi anche alla fine delle scuole medie e quelli che avevano difficoltà all’inizio del loro percorso scolastico avranno ancora più difficoltà pur dopo molti anni di scuola. Scopriremmo che la scuola avrà accentuato le differenze iniziali invece di ridurle, come sarebbe stato lecito aspettarsi. Questo è quello che ci dicono ormai da molti anni tutti gli studi relativi al tema. Gli uni verranno premiati da voti migliori, da maggiore attenzione da parte degli insegnanti, da maggiori opportunità, gratificazioni e autostima, e gli altri invece no.
In base a cosa? Che merito hanno avuto i bravi che erano già bravi prima di iniziare la scuola? E che demerito, invece, gli altri? Cosa vuol dire, dunque, premiare il merito? Vuol dire premiare una condizione di vantaggio per la quale i bambini e le bambine non hanno nessuna responsabilità diretta. Significa premiare la fortuna di essere nati in una certa famiglia invece che in un’altra. Significa cristallizzare una differenza arbitraria e legittimare una disuguaglianza ingiustificata.
Significa giustificare moralmente un’ingiustizia.
Ecco perché la superficiale retorica meritocratica rischia di trasformarsi nel fondamento ideologico di una visione neo-aristocratica della società. Proprio ciò che dovrebbe rappresentare una possibilità di emancipazione per tutti gli underdog, i più svantaggiati dai casi della vita, finisce, in realtà, per penalizzarli ancora più duramente. Se non trovi lavoro, è perché preferisci stare sul divano. Mica possiamo mantenerti noi con il reddito di cittadinanza. Se non riesci a garantire ai tuoi figli una scuola di qualità, è perché non ti sei impegnato abbastanza. Mica è un problema nostro.
Una recente indagine condotta negli Stati Uniti mostra chiaramente una dinamica di questo tipo: la percentuale di quanti sono a favore di politiche pubbliche che investono in istruzione, sanità, pensioni, accesso a Internet, etc., tutte politiche che favoriscono l’uguaglianza delle opportunità, si riduce significativamente con l’aumentare del reddito individuale.
Più ce l’ho fatta, meno credo che lo Stato debba aiutare chi non ce la fa. Questa è la mentalità che emerge da questi dati. Questo è il modello che vogliamo importare anche in Italia? In questo modo la retorica meritocratica si trasforma velocemente in una forma di autolegittimazione delle élites, un meccanismo di trasmissione di privilegi, di amplificazione delle diseguaglianze e di colpevolizzazione di chi rimane indietro.
E bastasse introdurre la parola “merito” nella denominazione del Ministero dell’Istruzione per risolvere problemi come questi. Non sono sufficienti generici appelli alla responsabilità personale se contemporaneamente non si lavora per la concreta rimozione di tutti quei fattori che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, delle condizioni di partenza e che continuano a bloccare la mobilità sociale. Non bastano generici appelli al merito se poi si contribuisce, con le scelte politiche, a consolidare una società nella quale il figlio del medico diventa medico, quello del notaio, notaio e quello dell’operaio, se fortunato diventa operaio, altrimenti disoccupato, ché tanto a noi che ci importa, sarà stata solo colpa sua.
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