Mercurio e sosia
L’Amphitruo di Plauto è uno dei capolavori del teatro di tutti i tempi, e unisce il comico al tragico, come poi farà magistralmente anche Shakespeare. È la storia di Giove che, innamoratesi di Alcmena, per vincere la sua virtù di sposa fedele, in assenza del marito Anfitrione assume le sembianze di lui e fa assumere a Mercurio, mandato avanti per preparargli la strada, quelle del servo di Anfitrione, Sosia, che sta a guardia della casa. Mercurio con le sembianze di Sosia – da allora diciamo: il sosia – deve convincere il vero Sosia che Sosia è lui, Mercurio, e che perciò Sosia non è Sosia. Il povero schiavo non ci sta: già non ha niente e nessun diritto, come schiavo, ora dovrebbe perdere anche ciò che è, la sua identità, il suo nome, e si ribella. Ma Mercurio-Sosia, in una scena, in cui l’acme del comico è raggiunto attraverso il tragico, a suon di eloquenti percosse lo convince di non essere più Sosia. Il paragone con quanto sta accadendo nel mondo, non solo in Italia, per quel vero e proprio rovesciamento morale delle verità fondamentali, che inizia, fa o porta a termine cataclismi sociali, frane giuridiche e allineamenti in basso dei rapporti umani ovunque, è calzante: si tratta di identità dis-identificate, di verità perfettamente rovesciate nel loro contrario. Come quello zio (parlo di un fatto di cronaca) che sedusse la giovane nipote e si giustificò dicendo di averlo fatto per amore, così tanta gente, sobillata da poche migliaia di cosiddetti intellettuali che fanno opinione e tendenza e ormai dittatura nei mass media, si lascia ideologicamente trasportare da tutti i venti delle pulsioni e dei desideri e li chiama diritti, li chiama amore. Ma vediamo se c’è differenza – vera, sostanziale – tra il vero amore e il suo sosia. Esiste un criterio non ideologico per distinguere il vero amore da ogni specie di sua contraffazione e imitazione? Esiste certamente, perché l’ideologia, che è la riduzione della realtà alla misura delle proprie idee, non prevede il sacrificio dei propri comodi limiti mentali e morali; il sacrificio di sé. È proprio qui, nel sacrificio di sé, la misura di ogni vero amore e quindi il criterio infallibile della sua differenza da ogni contraffazione e imitazione. Quando si sente parlare di amore in volgari o banali termini di avventura consumistica, o in più elevati ma irrimediabilmente insufficienti orizzonti romantici, si può anzi si dovrebbe fiutare il falso, la maschera, perché tutti questi presunti amori sono figli dell’egoismo, e infatti durano, in qualche modo, finché finiscono. Ma un amore che finisce non è mai veramente neppure incominciato; perciò non è un amore vero, ma solo una sua più o meno abile imitazione. Finge (anche in buona fede, a volte è così, e questo è il dramma) abnegazione per costringere al contraccambio, mima l’affetto gratuito per fare dell’altro, vinte le sue difese, preda, si spinge fino alla distruzione o all’autodistruzione pur di non rinunciare alla persona amata. Si uccide sempre quello che si ama, disse con perfetta falsità Oscar Wilde, ma, poiché era artista, anche con perfetta inconscia comprensione del dramma del falso amore di Narciso. Non si esce dal circuito del falso amore più di quanto il povero mortale e schiavo Sosia riesca a uscire dalla stretta, delle percosse del divino Mercurio che pretende di essere il vero Sosia. Non se ne esce a meno che non si smetta di dipendere dalla girandola del mondo. È chiaro che chi trova il suo baricentro morale fuori dalle illusioni vede ruotare fuori di sé, lontana, l’aiuola che ci fa tanto feroci (Dante). E può incominciare, con timore e tremore, ad amare, non del tutto falsamente.