Mercosur: molto rumore per poco
A fine marzo il Mercosur (Mercato comune del sud) compirà 30 anni. L’atto di nascita del gruppo di integrazione costituito da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, venne infatti firmato nel 1991. Ma di celebrazioni ce ne saranno ben poche e nessuna presenziale. L’attuale impennata di casi di Covid19 sconsiglia la presenza di comitive provenienti dall’estero, specialmente dal Brasile dove il virus appare ormai fuori controllo. Ci si accontenterà di una cerimonia in videoconferenza alla quale hanno promesso di partecipare i presidenti dei quattro Paesi membri, invitati dall’argentino Alberto Fernandez, anfitrione della riunione.
Ma il tono minore della cerimonia non sarà determinato dalla situazione sanitaria, che semmai avrebbe dovuto essere motivo di una accelerazione dell’attività di cooperazione, quanto dallo smorzato entusiasmo attorno al processo di integrazione regionale.
Trent’anni dopo gli inizi del blocco, nel quale si progettava il libero transito delle merci, la coordinazione macroeconomica e, magari, anche una moneta unica, i risultati raggiunti non vanno oltre un’unione doganale imperfetta, zeppa di eccezioni e di continue discussioni. Di coordinazione macroeconomica e di moneta unica manco a parlarne. Non solo, ma le adesioni di altri Paesi, quelli “associati” che partecipano ad alcune iniziative, sono ormai ferme da tempo. Cile e Perù, i vicini immediati, oltre a Ecuador, Guyana e Suriname, non sembrano per ora molto interessati a trasformarsi in stati membri. Ne farebbero parte anche Venezuela e Bolivia, ma Caracas è stata sospesa di fronte all’innegabile involuzione democratica del governo di Maduro. Il Mercosur si è dotato di una clausola che sospende i membri in caso di interruzione della continuità democratica. Nel caso boliviano, invece, manca il consenso formale del Brasile. Nelle attuali circostanze politiche, è difficile che il parlamento brasiliano ratifichi l’inclusione della Bolivia, viste le differenze ideologiche tra i due governi.
Ed è questo il principale ostacolo per la crescita del Mercosur: al netto della sanzione imposta, e giustamente, al Venezuela, il blocco si è impantanato in diatribe ideologiche che hanno impedito di sviluppare progetti comuni in modo continuativo. La dipendenza dagli orientamenti politici dei governi di turno è prevalsa sugli obiettivi di un blocco integrato. Durante gli anni della grande crescita economica di tutto il Sudamerica, fra il 2003 ed il 2012, si è commesso l’errore di credere che il motore dell’integrazione regionale fosse la sintonia ideologica tra governi progressisti o di sinistra, e non un orientamento comune verso progetti di sviluppo. I problemi interni ai vari Paesi e l’instabilità istituzionale hanno fatto il resto.
Trent’anni dopo la firma del Trattato di Asunción che diede il via al Mercosur, uno sguardo alle poche infrastrutture comuni offre un quadro ben povero: non ci sono autostrade internazionali che colleghino i vari Paesi; non esistono corridoi stradali o ferroviari che uniscano i porti sulle sponde dell’Atlantico con quelli del Pacifico; è poverissimo lo sviluppo delle reti ferroviarie, nessuna delle quali collega Paesi diversi; appena simbolici i progetti culturali. I corridoi progettati, provvisti anche di avveniristici tunnel per attraversare le Ande, fanno mostra di sé in bei modellini, ma di realizzarli non se ne parla. E una cosa è certa: non basta solo produrre beni, se non si ha un modo efficiente e poco costoso di poterli poi distribuire negli immensi territori del continente sudamericano.
Un secondo scoglio è stata l’eccessiva gerarchizzazione delle decisioni, affidate tutte ai summit dei presidenti. Il che significa l’assenza di un apparato tecnico capace di portare avanti le linee generali definite a più alto livello.
Eppure oggi si coglie con chiarezza quanto sarebbe stato utile un blocco forte, capace di affrontare in modo corale le molteplici sfide della pandemia. Un po’ come le storie del tango, quella del Mercosur è una promessa incompiuta che fa sospirare su “come sarebbe stato se…”. Andrebbe cambiato registro. Cominciando forse a deideologizzare lo sviluppo.