Mentre cominciava la guerra
Ingratitudine, cioè il disagio. All’aeroporto di Los Angeles fatico a capire quel che mi dice l’agente del servizio di immigrazione. Penso che qualcosa non vada nel mio passaporto. No. Il mio interlocutore ha semplicemente sottolineato la mia provenienza: Parigi, volo Air France. “Ingrati”, commenta a bassa voce. Poi, scoprendo che sono italiano, si scusa: “I’m sorry, you are friends”, siete amici. La guerra si annuncia mi trovo negli Usa. Forse qui capirò perché 250 mila uomini e donne d’Oltreoceano sparano nel deserto dell’Iraq. Le vie della principale città della California non sembrano tradire nessuno stato di guerra. Ma un grande cartello grida le parole di Abramo Lincoln: “In God we trust, united we stand”, confidiamo in Dio, in lui restiamo uniti. Silicon Valley, cioè la crisi economica. È nato in Corea, Francis, ma da metà della sua vita abita negli Usa, di cui è cittadino. Da un anno, la più grande casa produttrice di microprocessori al mondo gli ha dato il benservito. Era senior engeneer, uno dei massimi livelli. È in trappola. 45 anni, troppo vecchio ormai per l’industria informatica, e troppo giovane per la pensione, non può vendere la bella villa di San José, perché il mercato immobiliare è crollato. Ha cercato di “re-inventarsi”, come si dice da queste parti, aprendo un fast-food; ma il mercato anche in quel campo è saturo. Ora si chiede come continuare a pagare gli studi alla figlia. Come lui, milioni di statunitensi sono senza lavoro. Melodramma, cioè una nazione che si interroga. Ron Austin, sceneggiatore che ha lavorato con Fred Astaire e Bette Davis. Ha messo su un gruppo di giovani scrittoriinternazionale, interreligioso e interculturale. Ha scritto loro una lettera: “Come rispondiamo alla paura e all’odio, alla frustrazione e alla divisione?”, si chiede. Propone tre princìpi: “Il primo – restare nel momento presente – è cruciale. Dobbiamo confrontare le nostre paure più profonde. Bisogna cominciare ad ascoltarsi”. Il secondo principio consiste “nell’esplorare il mistero dell’altro”, e ciò significa “unirci alla sofferenza del nostro avversario “. Il terzo è invece “trasfor- mare il conflitto”, che non vuol dire “trovare una soluzione”. Ron aggiunge una postilla, per mettere in guardia contro la tendenza dei media “a trasformare la guerra in melodramma”. No war, cioè l’esercito di chi non vuole la guerra. Mi vedo recapitare una email che dice “No war”, no alla guerra. Viene dall’università di Berkeley, vicino a San Francisco, quella dove è cominciato il Sessantotto. Seguono gli indirizzi di 427 siti nati negli ultimi mesi contro la guerra. Si va dai nostalgici pacifisti, agli esperti di informatica, da alcuni deputati del Congresso alle madri di famiglia del Connecticut” Fa notte. L’autoradio annuncia che al summit delle Azzorre i partecipanti si sono decisi per la guerra, sulle macerie della diplomazia. Non lontano dal Sunset boulevard, scorgo una fila di lumini, uomini e donne di ogni età che espongono cartelli su cui è scritto: “Non ci serve una guerra, ma un lavoro”. Directors Guild of America, cioè il travaglio dei media. Convegno su “Responsabilità sociale e media”, nella sede dell’albo dei registi degli Stati Uniti. L’aria è pesante, si aspetta il discorso di Bush. Jack Shea, fino all’anno scorso presidente dell’istituzione, invita i presenti a cercare nell’ascolto, nel rispetto e nell’accoglienza reciproca la risposta alla sfida di pace del presente. Tra gli oratori, una produttrice ebrea, Maryl Marshall-Daniels, non esita a esporsi: “In noi convivono bene e male. Lo sforzo educativo vuol far scegliere il primo. Ma non basta, bisogna essere più vicini agli altri, convinti che siamo tutti uguali. Nelle storie televisive semplifichiamo tutto in modo manicheo, e ciò è pericoloso. Dobbiamo dare il giusto peso al bene che è in ognuno”. Il presidente, cioè colui che tutti ascoltano, ma non tutti approvano. George W. Bush parla alla nazione. Il cerimoniale è solenne, anche le parole del presidente, come il suo sguardo, nel quale si coglie quella determinazione che ha fatto grandi gli Usa: ma che talvolta li ha messi nei guai. Alla Pbs, la obiettiva televisione pubblica, è di scena la divisione di un paese. Si esprimono studiosi dai pareri divergenti. Brevi estratti: “Quel che ha detto Bush è grave. Ci sono stati altri casi di guerra preventiva, ma il presidente non convince chi è di pensiero opposto” (Robert Dallek); “È la naturale evoluzione della tragedia dell’11 settembre, che si combina con il cambiamento della diplomazia internazionale dopo la guerra fredda. Il presidente Bush sta salvaguardando la sicurezza della nazione e del mondo” (Diane Kunz). “La reputazione degli Stati Uniti per lungo tempo sarà danneggiata. Stiamo andando ad ammazzare un sacco di gente in questa operazione: ci preoccupa il terrorismo, ma anche la guerra è terrorismo” (Howard Zinn). Autostrada, cioè la retorica del potere. Seicento chilometri verso Nord. Un paesaggio opulento di agricoltura e industria, in cui i campanili sono sostituiti dalle torri dei centri commerciali. La Cbs Radio consiglia: “Per difendersi dagli attacchi terroristici, bisogna accumulare viveri, rimanere in contatto coi telefonini, rifare le imposte di casa”. Un invito agli acquisti, più che un avvertimento. Ancora: “Bisogna ammazzare Saddam Hussein, come i terroristi di Al Qaida”. “Questa è la retorica del potere – mi spiegano – . Siamo un paese che non è mai stato attaccato sul proprio territorio, prima delle Twins, salvo a Pearl Harbor, che pure era ben lontana dal continente americano. C’è la paura dei terroristi, e quella della guerra. Ci si rassicura andando dietro a Bush o protestando contro il conflitto”. Sosta, cioè i meriti degli Stati Uniti. Forse questi giorni mi hanno permesso di capire meglio qualcosa dell’anima americana, di questa gente partita soprattutto all’inizio dall’Europa verso l’ignoto, che ha conquistato palmo a palmo una terra benedetta, ricca di tutto, anche della grazia di Dio, come recita la Costituzione a stelle e strisce. In quest’acqua hanno trovato l’oro; nella campagna oltre queste cime cresce di tutto; nella valle il turismo porta valute di ogni dove; poco più in là si estrae l’oro nero. Hanno trovato o prodotto tutto, hanno dimenticato cosa voglia dire rassegnarsi, hanno acquistato una straordinaria capacità di rinnovamento, di praticità e spontaneità, non disgiunta da una profonda religiosità, hanno trovato la libertà. Con tutto ciò è maturata in loro anche una progressiva convinzione di invincibilità. Ma da quel fatidico 11 settembre qualcuno ha intaccato tale certezza. Ultimatum, cioè i corsi e ricorsi della storia.”È giunto il momento di arrendersi. È la scelta migliore per il suo popolo. Come responsabile della sua gente, lei deve partire in esilio senza opporre condizioni”. Risposta: “Il mio popolo non vuole che lo abbandoni “. Ulteriore minaccia: “Se non se ne va, la sua gente soffrirà pene indicibili, di cui lei sarà ritenuto il solo responsabile”. Definitiva decisione: “Restiamo nella terra dei nostri padri”. È il dialogo a distanza intercorso, nel gennaio 1851, tra il maggiore Savane, del battaglione Mariposa, e il capo Tenaya, leader della tribù indiana degli yosemiti, che di lì a poco fu deportata nella riserva di Fresno. Democrazia, cioè: chi può dire altrettanto? Proprio a Fresno, nella California centrale, prendo il pullman per tornare a Los Angeles. Improvvisamente a un incrocio scorgo un centinaio di persone alzare al cielo cartelloni di protesta: “Niente sangue in cambio di petrolio”, “No al dittatore texano”, “Ama gli stranieri “. In mezzo a loro, due donne e un bambino alberano la loro solidarietà per Bush. Questa è l’America tollerante. In quale altra parte del mondo ciò sarebbe possibile? Leggo però che qui negli Usa solo Saluti tra le lacrime alla partenza per i campi di battaglia. dal 20 al 40 per cento degli aventi diritto vota. E le ricerche demoscopiche indicano che metà dei votanti segue le opinioni delle tivù commerciali. Mi chiedo come mai nella nazione che si reputa più democratica al mondo, e che in nome di essa attacca un paese senza essere attaccato, così poca gente partecipi al principale atto democratico. Greyhound, cioè la schiettezza che si scontra con l’astuzia. Sul pullman si siede accanto a me un giovane uomo, un battista. Mi fa: “Andiamo in Iraq perché Saddam non ha detto la verità, ci ha imbrogliati per decenni. Non capisco i francesi: li abbiamo liberati dal nazismo e ora non ci aiutano contro il nuovo Hitler” E voi italiani, a parole siete con noi, ma nei fatti cercate solo il vostro interesse” Gesù ha detto: “Chi non è con me è contro di me”. Noi siamo con lui”. Semplicità o semplicismo? Oscar, cioè anche il cinema protesta. La guerra non poteva risparmiare Hollywood e il rito supremo del business cinematografico. All’Academy non hanno mai perso la convinzione che la cerimonia degli Oscar si sarebbe svolta nonostante la rinuncia di taluni protagonisti. Si è accettato di eliminare il tappeto rosso, e si sono fatti entrare attori e registi senza passerella. “The show goes on”, lo spettacolo continua, dicevano. Anche se nel corso della cerimonia alcuni premiati manifestano poi il loro dissenso dalla guerra. Controlli, cioè la grandezza e la bontà. L’aeroporto sembra un fortino. Partendo, mi chiedo se sono riuscito a rispondere alla domanda che mi ponevo all’arrivo in California, sul perché della guerra. Non lo so. Ho visto però segni di speranza: un forte ritorno alla preghiera, spiriti indomiti che non si rassegnano al peggio, cristiani e musulmani ed ebrei e indù che dialogano nonostante tutto. Mi torna insistentemente allo spirito una frase di Alexis de Toqueville. “L’America è grande perché è buona. Se l’America cessasse di essere buona, cesserebbe anche di essere grande”.