Melfi. La legge oltre i cancelli della fabbrica
La continua tensione sul caso Fiat chiede lo sforzo di un nuovo dialogo. A partire dalla Costituzione.
Tutto è avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 luglio. Due udienze davanti al giudice durate complessivamente 16 ore per stabilire se, durante quel turno notturno, un carrello automatico di un reparto sia stato bloccato intenzionalmente da operai in sciopero.
Le cinquanta pagine del verbale con le versioni di azienda e sindacati, le testimonianze dirette e i pareri di tecnici presentati da entrambe le parti sono all’origine del decreto emesso in piena estate, 9 agosto, con cui il Tribunale di Melfi, in Basilicata, ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro di tre lavoratori licenziati e denunciati penalmente dalla Sata Spa. È questo il nome, “Società Automobilistica Tecnologie Avanzate”, con cui il gruppo Fiat ha dato vita, con contributi e agevolazioni pubbliche, negli anni ‘90 ad un nuovo tipo di produzione improntata sulla qualità totale di stile giapponese. Un progetto definito dall’allora amministratore delegato Cesare Romiti che prevedeva un nuovo ruolo partecipativo del lavoratore superando la prospettiva di affidarsi alla sola robotica e che richiedeva un “campo verde”, l’area agricola di Melfi, sinonimo di un contesto sociale lontano da memorie di conflitti sociali e sindacali. Un clima necessario anche per far passare l’esigenza di turni più intensi e un livello del salario ridotto rispetto agli altri stabilimenti.
Sembra perciò paradossale un contenzioso che arriva fino alle denunce penali reciproche proprio a partire da un carrello automatico. L’azienda attende, udienza fissata il 6 ottobre, l’esito del ricorso contro il decreto del tribunale che ha condannato la Fiat per condotta antisindacale: il carrello era già fermo e non ci sarebbe stata alcuna volontà di danno da parte dei tre lavoratori che risultano, tra l’altro, delegati o comunque iscritti alla Fiom Cgil.
Lunedì 23 agosto, giorno di riapertura della fabbrica, alla presenza di carabinieri e ufficiale giudiziario, le telecamere delle tivù hanno filmato l’entrata nel perimetro aziendale dei tre operai espulsi. Formalmente la multinazionale dell’auto ha adempiuto l’obbligo di riammettere i tre in azienda ma impedendogli di riprendere il lavoro. Volendo, possono stazionare nella saletta delle rappresentanze sindacali. Lo stipendio è comunque assicurato anche se avessero deciso di rimanere a casa come li ha invitati a fare una lettera della direzione aziendale.
È evidente il significato simbolico di quel confine che esiste tra mondo esterno e l’universo della fabbrica. Passato quel “limes” si vuole esplicitare, con la guardiania privata e l’esercizio della disciplina gerarchica, la libertà di impresa senza intrusioni, come si evidenzia nella polemica attuale sul valore dell’articolo 41 della Costituzione, che pone un limite a tale libertà in nome della dignità umana. Il datore non vuole riammettere il lavoratore che ha accusato di comportamenti neoluddisti (distruzione della macchina da parte degli operai). Si denuncia la rottura di un legame di fiducia che impedirebbe la continuazione del rapporto di lavoro, a prescindere da ogni imposizione dall’esterno. Che poi è lo specifico di quanto previsto, invece, dallo Statuto dei Lavoratori per difendere le ragioni di chi,secondo il giudice, è ingiustamente licenziato. Anche un giurista del lavoro come Pietro Ichino, attento alle ragioni della Fiat impegnata in una sfida competitiva mondiale, ha giudicato incomprensibile l’atteggiamento dell’azienda dato che «l’ordinanza cautelare del giudice deve essere rispettata integralmente, anche se la si ritiene sbagliata». Non mancano al grande gruppo industriale gli strumenti giuridici per far valere le proprie ragioni davanti ad ogni grado di giudizio. Si tratta di accettare una legge che, per definizione, vale per tutti. Secondo il giudice di Melfi il comportamento dei tre operai non ha leso «irreparabilmente il vincolo fiduciario e messo in dubbio la futura correttezza dell’adempimento del contratto di lavoro» e pertanto il licenziamento è «obiettivamente idoneo a conculcare il futuro sereno esercizio del diritto,costituzionalmente tutelato,di sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale».
È palese il legame tra questa piccola vertenza e la possibile attuazione del notevole piano industriale previsto dalla Fiat anche in Italia. Un obiettivo importante da realizzare con il concorso di tutte le componenti del sistema Paese alla ricerca di una sintesi corretta tra diritti e progetti industriali. L’appello al presidente Napolitano in nome della Costituzione non è solo formale. In tutta la vicenda è evidente, finora, la mancanza di un ruolo di raccordo e di dialogo che non può essere eluso ancora per molto.