Meglio banche tricolori?
La banca è l’istituto che permette l’utilizzo del risparmio dei cittadini per il finanziamento dell’economia ed è una delle invenzioni più utili alla società moderna. Nel tardo Medioevo nascevano i banchi privati dei commercianti fiorentini e genovesi che finanziavano le spedizioni dei re di Francia e Spagna, mentre il movimento francescano, per liberare artigiani e contadini dal laccio degli usurai, inventava i monti di pietà. Nell’Ottocento il panorama delle banche di natura pubblica si arricchiva delle casse di risparmio del movimento cooperativo agricolo ed artigiano e delle banche popolari, istituti ispirati dalla solidarietà, i cui utili venivano interamente devoluti per fini di pubblica utilità. Nell’età moderna lo sviluppo delle attività mercantili e del capitalismo ha orientato le banche in maniera crescente alla ricerca del profitto. La natura imprenditoriale delle banche è oggi sancita dalle leggi comunitarie che, come contrappeso a tutela dei clienti, promuovono contemporaneamente la concorrenza e la trasparenza. Fino a vent’anni fa in Italia gran parte dell’intermediazione bancaria faceva capo a istituti pubblici a maggioranza Iri, ente creato apposta dallo Stato per salvare le banche dal fallimento dopo la crisi finanziaria del 1929. La natura pubblica delle banche provocava alcune degenerazioni. Pur essendo in buona parte orientate al bene pubblico, esse venivano portate su una brutta china a causa del loro potere sia di stabilire come destinare gli utili conseguiti, sia soprattutto di decidere quali progetti finanziare. Le nomine dei loro consiglieri, decise dalle istituzioni politiche locali e centrali, alimentavano un circuito vizioso di interferenze indebite tra l’economia e la politica. Quando tali meccanismi minavano l’integrità di funzionamento delle banche, queste finivano per concedere prestiti anche per progetti fantasiosi o mal strutturati. Per queste ragioni nel drammatico 1993 il primo ministro Amato e il governatore Ciampi varavano il testo unico bancario, che chiudeva la strada alle interferenze politiche e apriva quella della trasformazione delle banche in società per azioni, distinguendole dalle fondazioni bancarie loro azioniste, che assieme ai nuovi soci privati avrebbero ottenuto gli utili prodotti, destinando la loro quota per fini di pubblica utilità. Si avviava così la profonda trasformazione del sistema bancario sotto l’attenzione costante del governatore Fazio. La politica di vigilanza della Banca d’Italia riusciva a traghettare un po’ alla volta gli istituti disastrati in porti più sicuri, agevolandone la fusione con altre banche italiane più sane, che ne approfittavano per crescere di dimensione. Alla fine di questo certosino taglia e cuci oggi possiamo contare i nostri maggiori istituti bancari sul palmo di una mano, più una decina di banche medio-grandi. Tutto bene quindi col nuovo sistema? Se nelle nuove banche le interferenze politiche si sono ridotte, ne sono purtroppo divenute possibili altre, essendo entrati nei loro consigli i rappresentanti dei nuovi soci, a volte finanzieri in cerca di acquirenti per le proprie emissioni obbligazionarie. Inoltre, anche se il tasso dei prestiti si è ridotto, la ricerca del profitto bancario ha messo in evidenza la debolezza dei clienti più piccoli, siano essi risparmiatori oppure piccole imprese che cercano un finanziamento. In alcuni casi le banche trascurano la clientela al dettaglio, caricata di sempre maggiori costi perchéconsiderata poco redditizia o più a rischio, e dedicano maggiori risorse ad altre attività, come alla gestione di emissioni obbligazionarie e ad operazioni legate alle fusioni societarie, le quali, se si dispone di credibilità e grandi quantità di denaro, sono capaci di produrre utili rilevanti in breve tempo. Le banche per razionalizzarsi hanno tagliato molti posti di lavoro, spesso distruggendo quel rapporto fiduciario che il piccolo risparmiatore aveva con il proprio cassiere, che diventava anche un prezioso consigliere. Le grandi manovre per fusioni ed acquisizioni tra banche sono ancora in corso. Di recente per la Banca Nazionale del Lavoro è stata effettuata una offerta pubblica di scambio azionario (Ops) da parte dello spagnolo Banco di Bilbao, mentre per la Banca Antonveneta c’è stata una offerta pubblica di acquisto (Opa) dell’olandese Abn Amro. Come accade di solito, le banche scalatrici sono importanti azioniste delle banche prede. Tali operazioni sono soggette alla doppia approvazione della Consob, che vigila sulle società quotate in borsa, e della Banca d’Italia. In entrambi i casi quindi si tratta di possibili acquisizioni estere di banche italiane. Tali manovre erano nell’aria da tempo. Nei mesi scorsi il commissario europeo al mercato interno, McCreevy, in maniera alquanto polemica ha chiesto alla Banca d’Italia chiarimenti su eventuali ostacoli all’acquisto delle banche italiane da parte di banche estere, insinuando che l’Italia sia chiusa ai concorrenti esteri. Il governatore Fazio rispondeva indirettamente facendo presente che le banche italiane non sono affatto chiuse ai capitali esteri: i primi quattro gruppi bancari italiani vantano infatti partecipazioni azionarie di istituti esteri per il 17 per cento del proprio capitale, una percentuale molto più alta rispetto a quella che si registra nei sistemi tedesco, francese e spagnolo. Certamente però il governatore preferirebbe una soluzione ancora italiana. Non a caso, la Banca Popolare di Lodi ha avuto via libera negli ultimi giorni per rastrellare in borsa le azioni dell’Antonveneta e diventarne almeno momentaneamente il primo azionista. Perché? Uno dei motivi per augurarsi un ulteriore irrobustimento delle maggiori banche italiane, se esse fossero interessate, è che così la banca centrale avrebbe modo di sorvegliarle meglio che se diventassero estere. In effetti la internazionalizzazione delle banche rende più complicata la sorveglianza delle banche centrali. Il problema non è solo italiano. Il cosiddetto comitato di Basilea, formato dalle autorità di vigilanza delle 13 nazioni più industrializzate, ha stilato un nuovo regolamento sui requisiti patrimoniali e sul controllo dei rischi per le banche. L’accordo, noto come Basilea 2, è orientato ad assicurare una maggiore stabilità degli istituti finanziari, definendo regole precise di comportamento valide per tutti. I paesi intenzionati ad aderire volontariamente all’accordo sarebbero oltre un centinaio. Le banche potranno meglio ottemperare a tali nuove direttive se ben attrezzate con uffici per la gestione dei rischi e collaudate procedure di controllo amministrativo, un ulteriore motivo, per le banche di piccola dimensione, per fondersi o apparentarsi. Comunque, se non si trova una solida soluzione italiana, piuttosto che inventare architetture finanziarie poco stabili, non sarebbe certo un dramma se in banche italiane di media dimensione venisserogono introdotti criteri di gestione di grandi banche estere: chissà che non ci guadagni il risparmiatore, che già adesso per ottenere qualcosa di più per i propri risparmi deve rivolgersi a conti colorati inventati da banche olandesi!