Medioriente tra democrazia e identita’
La reazione popolare all’assassinio dell’ex primo pinistro libanese Hariri ha messo in marcia un processo i cui esiti potrebbero riservare notevoli sorprese. Le diverse componenti del mosaico etnico-culturale del Libano hanno chiesto a gran voce una svolta nel destino politico del paese, ed in particolare il ritiro delle forze di occupazione siriane (per ora solo annunciato da Damasco), come esige la risoluzione 1559 del Consiglio di sicurezza. Le piste dell’attentato portano infatti quasi tutte a Damasco, poiché Hariri costituiva il più accreditato candidato contro l’ipoteca siriana (che data dal 1976) sulla politica libanese. Le dimissioni del governo filo-siriano inaugurano uno scenario inedito, anche se è forse presto per parlare di una rivoluzione dei cedri (albero tipico del Libano) simile alla rivoluzione di velluto di Praga nel 1989, alla rivoluzione delle rose della Georgia nel 2003, o alla recente rivoluzione arancione di Kiev. È vero che cristiano-maroniti, drusi e musulmani sunniti, che si erano affrontati in passato in una sanguinosa guerra civile, hanno trovato una nuova unità d’intenti sotto la comune bandiera libanese.Ma, almeno per ora, restano fuori da questa convergenza i musulmani sciiti, ed in particolare la potente organizzazione degli hezbollah (che anzi ha provocatoriamente manifestato, e con notevole partecipazione popolare, contro l’ingerenza americana e francese in Libano). Quest’ultima ha un triplice volto: quello delle milizie che fomentano il terrorismo mediorientale; quello sociale, che ne fa una delle più attive e popolari reti di assistenza; e quello politico, che la rende un potenziale attore nel gioco dei difficili equilibri libanesi (e non solo). Da tempo gli Stati Uniti vorrebbero tagliare corto con questi piani sovrapposti, inserendo gli hezbollah (come già avvenuto per Hamas) nella lista delle organizzazioni terroristiche. Gli europei pensano tuttavia che non sarebbe una buona idea, poiché farebbe di ogni erba un fascio e potrebbe causare reazioni incontrollabili. Ben al di là della vicenda libanese, lo scacchiere mediorientale è oggi in pieno movimento. Dopo la prova di dignità nazionale offerta dagli iracheni con le elezioni del 30 gennaio scorso, segnali di apertura provengono infatti da vari paesi. L’Arabia Saudita ha tenuto per la prima volta elezioni municipali (alle quali però non hanno potuto partecipare le donne); Hosni Mubarak, al potere in Egitto da quasi un quarto di secolo, ha annunciato che consentirà (bontà sua) che l’opposizione presenti propri candidati alle elezioni presidenziali; in Palestina, l’elezione di Abu Mazen ha aperto nuove prospettive per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Restano tuttavia nodi molto difficili da sciogliere: basti pensare all’Iran, alla stessa Siria di Assad, ed alla (petrolifera) dinastia saudita, che l’occidente non è interessato a destabilizzare per ragioni intuibili. La seconda Amministrazione Bush tende a porre il proprio cappello su queste evoluzioni, che – in un rap- porto di causa-effetto – sarebbero il risultato dell’iniziativa americana (lanciata due anni fa) per la democratizzazione del mondo islamico. La realtà è ben più complessa, ovviamente. Gli Stati Uniti hanno saputo tempestivamente identificare i punti di svolta o soglie critiche che tendono a manifestarsi – contro l’influenza di partiti fondamentalisti – in favore di una maggiore apertura democratica nel mondo islamico. Ma gli sviluppi in corso erano avviati da tempo, ed erano stati incoraggiati e sostenuti dall’Unione europea con il dialogo euro-mediterraneo sin dal 1995. In ogni caso, essi non dimostrano che la democrazia, la libertà ed i diritti umani debbano essere affermati con interventi militari esterni. Questi progressi sono, da un lato, la faticosa conquista di popoli e società, che, per parafrasare Josè Samarago, sono stanchi di guerra; dall’altro, essi devono essere agevolati da una risoluta, coerente e concertata azione della comunità internazionale e soprattutto delle istituzioni multilaterali, il cui indebolimento sistematico non giova affatto alla causa democratica. Inoltre, la maggioranza silenziosa in molti paesi islamici – che occorrerebbe appoggiare rispettandone le aspirazioni e la cultura – desidera solo vivere in paesi normali, senza ripudiare la propria identità né occidentalizzarsi. Non c’è un’unica via alla democrazia; non solo, ma la vera democrazia non consiste unicamente nella libertà; richiede anche l’uguaglianza e soprattutto la fraternità. Un programma politico che attende di essere realizzato, e non solo in Medio Oriente.