Mediocrità e responsabilità

Italo Svevo, coscienza critica del Novecento.
Ettore Schmitz

Nell’affollato panorama dei classici italiani moderni, lo scrittore Ettore Schmitz, noto con lo pseudonimo di Italo Svevo (Trieste 1861 – Motta di Livenza 1928), occupa da sempre una posizione a sé stante e apparentemente marginale, come la sua città di origine, Trieste. Contro la moda letteraria dell’epoca, dominata dal superuomo dannunziano, i suoi tre romanzi più noti Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno mettono in scena in modo impietoso un uomo comune, che ha perso la fiducia nella propria identità sociale. I tre protagonisti, Alfonso (Una vita), impiegato di banca con velleità artistiche, Emilio (Senilità), scrittore fallito, e Zeno (La coscienza di Zeno), erede distratto dell’impresa paterna, vivono in un mondo desolato, dove scontano senza speranza la condanna della propria inettitudine.
Alla fine, Alfonso arriva al suicidio, Emilio rinuncia all’amore per rifugiarsi in una condizione metaforica di grigia “senilità”, Zeno, il personaggio della piena maturità sveviana, sopravvive alla tragedia del male di vivere con l’arma di un’amara autoironia.
 
Questi antieroi della normalità quotidiana, borghesi spaesati e incerti, sono lo specchio dello scrittore che si sente a sua volta prigioniero di una aggrovigliata condizione esistenziale, dimezzato tra il desiderio di esercitare la propria attività intellettuale e la necessità di occuparsi dell’industria della famiglia della moglie. Fin da adolescente, Ettore aveva dovuto rinunciare alla agognata formazione umanistica, per andare a studiare ragioneria in Germania. Entrato in banca a Trieste, si sposa e nel tempo libero scrive, ma i suoi due primi romanzi sono un fallimento. Nella società mercantile triestina questo mancato successo è una grave colpa. Per vent’anni, Ettore Schmitz, nel frattempo diventato padre dell’amata Letizia ed entrato nella ditta del suocero, terrà nascosti nel cassetto i suoi scritti. Solo l’amicizia con Joyce, suo insegnante di inglese nel 1905, e poi lo scoppio della Prima guerra mondiale, lo risveglieranno da quella che egli stesso chiamava «la tristezza del silenzio».
Nel 1923 esce La coscienza di Zeno: Joyce e Montale ne colgono la novità e lo segnalano al pubblico. Arriva il successo, o per lo meno il riconoscimento dei critici. Dietro Ettore Schmitz, industriale, ricompare Italo Svevo, scrittore, ma dopo pochi anni un banale incidente stradale pone fine alla sua vita, a sessantasette anni. Ricorda la figlia che nelle ultime ore, per confortarla, ripeteva continuamente: «Non è niente morire», niente rispetto alle inquietudini esistenziali della sua vita di uomo e di scrittore.
 
In ogni luogo della produzione di Svevo, autore anche di racconti e pièces teatrali, risuona la voce intima di chi fruga nelle ombre della coscienza comune, perplessa e tormentata, di chi ascolta la voce della propria solitudine interiore, alla luce della crisi sociale e politica. Per questo spesso Svevo è considerato un autore difficile e desolante.
Eppure, a differenza di quanto avviene nei primi due romanzi, nel terzo Zeno scopre che la vita non è totalmente «né brutta né bella, ma è originale», ed in quanto tale può sempre creare situazioni bizzarramente favorevoli proprio all’antieroe. Zeno è un inetto, vive di rendita, non ha una funzione apprezzabile nella società, la sua esistenza non è segnata da azioni travolgenti, intuizioni fulminee, scelte durature: la sua sola occupazione sembra essere quella di osservare sé stesso e la società che lo circonda.
Ecco, però, uno spiraglio di speranza: la vita rimane «una malattia della materia», ma non è una oscura tragedia priva di senso contro la quale lottare senza speranza. Al contrario è una realtà da accettare così come si configura, momento per momento, perché è questa presa di coscienza a dare ordine e senso al mondo in cui si vive.
Dunque perché leggere Svevo, oggi? Romanzi di questo genere non sono destinati a rasserenare il lettore, proiettandolo nel migliore dei mondi possibili, ma a instillare dubbi e avviare riflessioni, spingendo chi legge a prendere atto delle proprie debolezze, con la messa in scena della mediocrità dei protagonisti. Per arrivare a scoprire, infine, che essere eroi significa assumere la responsabilità di farsi coscienza della società e analizzarla criticamente, per rifondarla.

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