Medio Oriente tra virus, turismo e petrolio
Come se non ci fossero già abbastanza problemi in Medio Oriente, il coronavirus si sta diffondendo ma sta anche provocando pesanti ricadute in campo economico, che in questo momento fanno quasi più paura dell’epidemia. I due incubi maggiori sono certamente in alcuni Paesi il crollo del turismo e, in altri, quello del prezzo del petrolio indotto da una riduzione della domanda provocata dall’epidemia, che ha fatto però esplodere la dura contesa, che era finora rimasta latente, fra i tre maggiori esportatori al mondo di oro nero: Arabia Saudita, Russia e Usa.
L’epidemia di Covid-19 ha ufficialmente superato in Medio Oriente le 12 mila persone contagiate, ma la maggior parte dei casi, il 90%, riguarda l’Iran. Secondo le informazioni fornite dal ministero della salute iraniano i casi rilevati nel Paese erano il 17 marzo oltre 14 mila e i morti più di 700, ma la curva ha cominciato a crescere al ritmo di mille nuovi contagi al giorno. Il sistema sanitario iraniano è di buon livello, ma carente di equipaggiamenti protettivi e medicinali a causa della sanzioni. Il governo ha chiesto al Fondo monetario internazionale un prestito di 5 miliardi di dollari per far fronte all’emergenza sanitaria.
Gli altri Paesi del Medio Oriente hanno chiuso i voli da e verso l’estero e le reciproche frontiere sperando così di evitare o almeno di rinviare quanto si sta verificando in Iran, ma già in Qatar e Bahrein il numero dei contagi sale giorno dopo giorno. In alcuni Paesi è consentito, ancora per poco tempo, il rientro dei cittadini e degli stranieri residenti, ma con obbligo all’arrivo di quarantena in apposite strutture. Le scuole sono chiuse o stanno chiudendo in quasi tutti i paesi della regione. Sempre più limitate le riunioni, comprese quelle di moschee e chiese.
Se questo è a grandi linee il quadro dei provvedimenti adottati per contenere il contagio, si apre un capitolo molto difficile per quanto riguarda il turismo. A livello mondiale viaggi e turismo danno lavoro a più di 300 milioni di persone, circa il 10% dell’occupazione globale.
Le reticenze di alcuni Paesi mediorientali a dichiarare la presenza di contagi da coronavirus è soprattutto legata all’attività turistica. Così è per esempio per quanto riguarda l’Egitto, che non ha ancora formalmente chiuso gli aeroporti e che finora dichiara 67 casi rilevati e 2 persone morte. In molti temono che il contagio sia molto più diffuso e che la situazione reale sia in qualche modo taciuta dalle autorità egiziane, ma non ci sono dati certi. Resta il fatto che il turismo egiziano ha un’incidenza del 12% sul Pil nazionale, ed aveva appena consolidato la tredicesima posizione mondiale, dopo le diverse crisi dovute al terrorismo jihadista degli anni scorsi.
Tra i Paesi più coinvolti dal crollo del turismo ci sono, oltre alla Turchia, anche Giordania e Israele, a motivo dei pellegrinaggi in Terra Santa. Un altro caso particolare ma molto importante per i pellegrinaggi è notoriamente l’Arabia Saudita, che in questo periodo dell’anno vedeva l’afflusso di circa 7 milioni di fedeli musulmani alla Mecca. In questi giorni la Kaaba e i luoghi santi islamici sono deserti per le restrizioni disposte dal governo saudita.
Un terzo capitolo inquietante che si ripercuote sul Medio Oriente, in questo momento segnato dalla pandemia da Covid-19, riguarda il petrolio. La domanda mondiale di idrocarburi si è molto ridotta dall’inizio di quest’anno. L’Agenzia Internazionale dell’energia prevede nel 2020 un calo nella domanda mondiale di greggio valutabile fra 25-30% rispetto allo scorso anno.
La Cina prima della crisi rappresentava il 75% della domanda totale: la contrazione dell’attività industriale cinese provocata dall’epidemia sta mettendo in difficoltà il mercato globale. E non c’è solo la Cina alle prese con la riduzione del consumo di carburanti: basti pensare a trasporti, voli e crociere. Senza una riduzione della produzione (a cui la Russia si oppone per diversi motivi) e con grandi quantità di greggio disponibili sul mercato, il prezzo al barile è crollato sotto i 35 dollari provocando una vera e propria guerra dei prezzi senza esclusione di colpi fra Arabia, Russia e Usa. Gli altri Paesi produttori, in gran parte mediorientali, non possono fare altro che barcamenarsi a seconda dell’andamento del mercato e delle alleanze politiche.