Medio Oriente, mancanza d’acqua e riscaldamento globale

In Medio Oriente il riscaldamento globale e i mutamenti climatici si traducono soprattutto in una crescente carenza di risorse idriche. La sfida non è solo tecnica e ambientale, ma antropologica. Lo sviluppo del dialogo interreligioso può diventare una strada per una visione condivisa dell’uomo in relazione al creato.

Durante la calura di ferragosto portata da “Lucifero” e con gli incendi che hanno devastato pesantemente i Paesi del Sud Europa affacciati sul Mediterraneo, la percezione del riscaldamento globale che minaccia il pianeta è diventata immediata. Ma dopo qualche temporale che ha ridotto le temperature il problema sembra meno imminente. Anche se tutti sappiamo che la situazione è molto seria, cosa può fare un cittadino se non chiedere ai governi un impegno più stringente per invertire la tendenza?

Solo che non basta, perché si tratta di una sfida globale che nessun Paese da solo è in grado di affrontare efficacemente. E se almeno nell’ambito dell’Ue sembra che ci sia l’intenzione di un approccio deciso (per ora dichiarato, naturalmente con una certa quantità di distinguo), in Medio Oriente ci sono tanti e tali problemi e conflitti che per ora il riscaldamento globale rimane nel sentire popolare una delle gatte da pelare che prima o poi qualcuno dovrà forse affrontare. E poi il riscaldamento globale non è legato in Medio Oriente prima di tutto ad un aumento delle temperature e degli incendi, ma soprattutto ad una drammatica e crescente carenza d’acqua.

È l’acqua il tallone d’Achille di questa regione dove si trova solo il 2% dell’acqua potabile del mondo. Ed è una disponibilità per di più concentrata sui pochi fiumi, per quanto grandi, che l’attraversano: il Nilo, il Tigri, l’Eufrate ed altri minori.

Questo significa che senza una gestione internazionale responsabile nella distribuzione delle risorse idriche, succede purtroppo che qualcuno se le accaparra e lascia gli altri all’asciutto. È la situazione della Siria e dell’Iraq che vedono i due grandi fiumi storici, il Tigri e l’Eufrate, sempre meno grandi a causa delle dighe e dei bacini idroelettrici turchi (il Tigri e l’Eufrate hanno le loro sorgenti in Turchia) con pesanti conseguenze sull’agricoltura e l’allevamento a valle degli invasi. Situazione analoga per l’Egitto e il Sudan di fronte alla grande diga Gerd che l’Etiopia sta completando sul Nilo Azzurro, a monte dei due Paesi Nordafricani.

Senza acqua potabile, anche i Paesi produttori di petrolio (ma fino a quando?) del Golfo Persico rischiano il collasso molto più per desertificazione e inabitabilità che per l’estinzione dei giacimenti di greggio o per una sensibile riduzione mondiale della domanda di idrocarburi.

Se alla riduzione delle risorse idriche disponibili provocata dalle politiche di intercettazione delle acque, unite al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, si aggiungono l’aumento della popolazione nei centri urbani e l’inquinamento in crescita esponenziale, non è difficile prevedere, per esempio, una pericolosa insufficenza idrica in tutto il bacino mesopotamico in meno di 20 anni. Realtà già in atto in Iraq in relazione ad agricoltura e allevamento. Senza contare gli attentati dei jihadisti dell’Isis che da tempo puntano a danneggiare le infrastrutture energetiche e idriche proprio per accelerare il collasso dello Stato.

A quel punto la migrazione climatica diventerà ingovernabile. Non si tratterà più soltanto di migranti in fuga dalla guerra o per i cosiddetti motivi economici, ma di un esodo di sopravvivenza, di fronte al quale i flussi migratori attuali verso l’Europa potrebbero diventare poca cosa, travolgendo la retorica di chi si ostina a non voler vedere la complessità delle crisi che ci sono dietro al fenomeno migratorio o di chi non sa decidere altro se non bloccare il problema fuori dai propri confini. Di fronte a questi fatti, affermare come va purtroppo di moda: “prima di tutto noi”, equivale ad una dichiarazione di suicidio a breve termine.

Perché non si tratta di affrontare un problema tecnico o ambientale, per quanto molto ampio e complesso, ma di vere e proprie sfide culturali e antropologiche globali sulle quali si gioca il futuro di tutti.

Le religioni possono forse esprimere qualcosa più degli Stati, se riusciranno a “leggere” queste sfide e ad affrontarle insieme. E possono farlo se avranno il coraggio di ritrovare le proprie radici spirituali e di pensiero, e di mettersi in dialogo.  È il senso di quanto hanno provato a fare nello scorso mese di giugno cattolici e musulmani italiani ritrovandosi per un dialogo che aveva per tema “Passi significativi: ambiente e cura del Creato”, facendo seguito al Documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana scritto da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib.

Sensibilizzarsi, dialogare e agire insieme per il bene comune: tutto ciò è già un passo verso il superamento di pregiudizi millenari e l’elaborazione, nel rispetto della propria identità autentica, di nuove e indispensabili prospettive umane e religiose.

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